Patrioti espatriati tra Mazzini e Marx

DIASPORE DELL’800
Due volumi recenti, «Risorgimento in esilio» di Maurizio Isabella e «Sul Risorgimento italiano», una raccolta degli scritti di Marx e Engels su questo tema, consentono di rileggere le vicende del processo unitario alla luce di un contesto di pensiero più ampio

DIASPORE DELL’800
Due volumi recenti, «Risorgimento in esilio» di Maurizio Isabella e «Sul Risorgimento italiano», una raccolta degli scritti di Marx e Engels su questo tema, consentono di rileggere le vicende del processo unitario alla luce di un contesto di pensiero più ampio
Qualche anno fa Perry Anderson ha proposto una periodizzazione della storia dell’internazionalismo basata sull’assunto che andasse collegata, come negazione o integrazione, a quella ben più robusta del nazionalismo. Per lo storico britannico le metamorfosi dell’internazionalismo potrebbero essere riassunte in cinque grandi fasi, definite dagli assetti del capitale, dal centro geografico del nazionalismo, dal linguaggio filosofico-politico del nazionalismo, dalla definizione della «nazione» e dal nesso fra «nazione» e classi subalterne.
Il sol dell’avvenire
Fra l’ascesa rivoluzionaria del patriottismo cosmopolita a fine Settecento e la rottura fra nazionalismo (aggressivo e coloniale) e internazionalismo (socialista) nell’età dell’imperialismo tardo-ottocentesca, si colloca un periodo di transizione, articolato e segnato da tendenze contraddittorie: mentre il nazionalismo si estende in Europa centrale, meridionale e orientale, nella temperie romantica alla nazione culturale si affianca quella etnica, mentre in molti contesti il nazionalismo si sgancia, anche per reazione alla dominazione napoleonica, dal lascito rivoluzionario.
L’ideale internazionalista fu difeso da settori liberali, democratici e, soprattutto, dai primi movimenti socialisti, che avevano come referente sociale il mondo del lavoro, val a dire artigiani e operai di mestiere. Anderson identificava il simbolo di questa stagione della solidarietà trans-nazionale nell’«eroe dei due mondi»: e non a caso, dopo l’Unità, Garibaldi avrebbe aderito al socialismo e nel 1872 avrebbe definito la (prima) Internazionale come il «sol dell’avvenire», un’espressione destinata a lunga fortuna, anche nella cultura visuale e nel canto politico (dall’Inno dei malfattori a Fischia il vento).
Del passaggio dalla prima alla seconda fase sono emblematici i percorsi dei patrioti fuggiti dalla Penisola dopo la Restaurazione o dopo i «moti» del 1820-21, ora al centro della ricerca di Maurizio Isabella, Risorgimento in esilio. Emarginati dalla memoria mazziniana e moderata, inseriti solo a unità nazionale compiuta nel pantheon dei «precursori», sono stati poi ricondotti dalla storiografia nell’alveo del liberalismo nostrano, giudicato ideologicamente arretrato e legato a ristretti interessi cetuali e municipali. Isabella ne rivaluta invece le idee, concentrandosi su una piccola frazione di intellettuali (una trentina di persone, il più noto dei quali è senz’altro Ugo Foscolo), che dal punto di vista anagrafico risulta la più anziana dell’insieme di parecchie centinaia di esuli: include infatti soprattutto persone nate prima del 1789, formatesi nel clima illuministico e attive sin dall’età napoleonica, che in genere non avrebbero mai potuto far ritorno in Italia e non avrebbero visto né il Quarantotto, né l’Unità.
Da Vico a Filangieri
La ricerca insiste su varie specificazioni della costellazione ideologica di questo gruppo, per altro variegato. Ne segnala innanzi tutto la «modernità», il liberalismo aggiornato a quello inglese e francese, anche per effetto della frequentazione di ambienti e dibattiti internazionali. In secondo luogo, si sottolinea con forza, anche contro l’idea di un «discorso nazionale» unitario, il cosmopolitismo di questi esuli, la fratellanza costitutiva di un patriottismo ancora scevro da derive etnocentriche o scioviniste. Infine le pagine di Isabella mostrano come il pensiero degli esiliati non rappresenti il mero calco delle esperienze europee, bensì un’elaborazione originale che media fra il liberalismo euro-atlantico, le specifiche condizioni dell’Italia e lo stesso patrimonio intellettuale nazionale, da Vico e Filangieri alla riflessione sulla «economia pubblica».
Per quanto l’autore si sforzi di sottrarre questo gruppo dalla presa della dicotomia fra «moderati» e «democratici», dal punto di vista del peso sociale e politico del loro ricco arsenale di idee deve tornare a delineare argomenti già noti, che confermano i giudizi della storiografia marxista: il rapporto con le masse rivela una torsione conservatrice, aliena da un rapporto anche solo ideale con i mondi subalterni rurali, che costituivano la maggioranza della popolazione italiana di allora e rendevano cruciale nel rapporto fra governanti e governati la questione della terra.
Consapevole di questi limiti, Isabella insiste infine sulla forza del lascito: ma quanto siano stati influenti gli esuli primo-ottocenteschi sul pensiero risorgimentale e sui comportamenti politici dei patrioti resta una questione aperta. Che le idee del Risorgimento siano anche di una cultura politica liberale «transnazionale» e che il nazionalismo italiano sia anche «diasporico» sono rilievi innegabili, ma non esauriscono la valutazione d’insieme del processo unitario e le matrici del suo farsi concreto nelle strette delle relazioni internazionali, delle politiche dinastiche e dell’iniziativa popolare. Nel giro di vent’anni si sarebbe imposto infatti in tutta Europa un nazionalismo meno «illuministico» di quello degli esuli, e altri internazionalismi avrebbero conteso il terreno alle politiche liberali, con la predicazione mazziniana e con il progressivo delinearsi di un punto di vista socialista, critico tanto della tradizione liberale che di quella democratica.
Un volume ci consente oggi di cogliere un’emblematica manifestazione di quest’ultimo sviluppo ideologico: gli scritti di Marx ed Engels Sul Risorgimento italiano, riproposti da Agostino Bistarelli in quattro sezioni tematiche, sulla scorta della più ampia raccolta approntata con consueta maestria da Ernesto Ragionieri più di cinquant’anni fa (e già sollecitata da alcune pagine carcerarie di Gramsci). Si tratta di scritti giornalistici, ma di un’intensità e una capacità analitica che si ricercherebbe invano su gran parte dei nostri giornali: e i due, che pure conoscevano l’italiano, non avevano certo a disposizione il ventaglio di fonti disponibile al giorno d’oggi.
Nell’arco di tempo della loro pubblicazione originaria, fra 1848 e 1860, quando Marx e Engels vivono le loro trentine (erano nati nel 1818 e nel 1820), l’Italia non esiste, se non come «questione italiana» che destabilizza il quadro europeo, anche per via della predicazione mazziniana che si distende su scala continentale. Lo sguardo sull’Italia dei due «comunisti» ha il pregio di evidenziare con sicurezza gli elementi caratterizzanti di una situazione in divenire, destinati a diventare cardini interpretativi della storiografia successiva: il peso determinante del contesto internazionale, con lo scontro fra l’Austria asburgica e il Secondo impero francese, ma anche con il ruolo diplomatico della Gran Bretagna; le ambiguità della politica piemontese, con le aperture liberali che fanno del Regno di Sardegna l’unico stato costituzionale italiano e la riduzione del problema nazionale nelle strette della politica espansionista sabauda; il gioco delle forze sociali, che permettono di dar conto dell’egemonia moderata, ma anche del ruolo dell’iniziativa popolare garibaldina.
Marx stesso, ma lo stesso vale senz’altro anche per il suo fedele compagno Engels, è consapevole dell’analogia fra interpretazione storica e lettura sociologica del presente, alla luce del medesimo criterio direttivo, che avrebbe anche dovuto fondare una politica scientifica: nel maggio del 1858, in una corrispondenza per la «New York Daily Tribune» dedicata a Mazzini e Napoleone, Marx afferma che «nella storiografia moderna ogni reale progresso è stato compiuto discendendo dalla superficie politica nelle profondità della vita sociale».
Una parodia del 1789
Assente dalle pagine del Manifesto, l’Italia insorge proprio mentre l’opuscolo è in stampa ed Engels registra puntualmente la rivolta siciliana e la saluta con gioia, così come Marx vede nella ripresa democratica di fine ’48 un modello per il resto d’Europa. Per loro la rivoluzione democratica e nazionale in Germania deve essere accompagnata da processi analoghi, specialmente in Polonia e in Italia, per indebolire i baluardi della reazione, gli Imperi russo e austriaco. Pochi anni dopo gli scritti marxiani di «storia del presente» (Le lotte di classe in Francia e Il diciotto brumaio) riconsiderano il Quarantotto europeo come parodia del 1789 francese, ma anche come prima manifestazione di una politica proletaria autonoma, pur destinata alla selvaggia repressione, esemplare nelle giornate parigine di giugno.
Il nuovo scenario degli anni Cinquanta vede il rilancio dello sviluppo capitalistico e il compromesso fra vecchie e nuove classi dirigenti in senso antidemocratico e antioperaio. Marx ed Engels sono impegnati in una serrata polemica antimazziniana, per la mancata attenzione che la politica del Genovese riserva alle condizioni materiali dell’azione rivoluzionaria, cioè alla situazione economica e al coinvolgimento dei contadini. Riconoscono, tuttavia, nel Piemonte liberale l’unica forza che può unificare l’Italia, anche se una rivoluzione nazionale democratica, dato il contesto internazionale e l’equivoco atteggiamento sabaudo, avrebbe potuto darsi solo come rivoluzione popolare.
Il giudizio sulla guerra del 1859 è molto duro: l’annessione della Lombardia, ceduta dall’Austria alla Francia e quindi «girata» al Regno di Sardegna, configura una «rivoluzione senza rivoluzione», mentre rafforza il dispotismo russo e il bonapartismo francese. Tuttavia Marx e Engels colgono alcuni segnali destinati a cambiare il corso del Risorgimento: la non piena disponibilità piemontese ai voleri di Napoleone III, l’atteggiamento dei governi provvisori nei territori dei Ducati, delle Legazioni e della Toscana e, soprattutto, l’iniziativa garibaldina. L’impresa dei Mille ispira ai due compagni pagine apologetiche del Generale, nel quale ripongono le speranze per un altro esito, rivoluzionario, dell’unificazione italiana. L’ultimo scritto, del settembre 1860, saluta Garibaldi in marcia su Napoli.
Antiche egemonie
Marx e Engels sarebbero tornati su vicende italiane solo dieci anni dopo, negli ultimi anni di vita della Prima Internazionale, ma avrebbero costantemente confermato il loro giudizio su un’Italia sorta dal compromesso fra classi dominanti (una «egemonia conservatrice antica» chiosa opportunamente Gabriele Polo nella prefazione al volume), caratterizzata dall’oppressione economica e politica delle classi subalterne, che pure erano state protagoniste, a differenza che in Germania, di impetuosi movimenti negli anni dell’unificazione nazionale. Nella stagione dell’Internazionale e nella successiva crescita del movimento operaio italiano i contatti con i compagni del Bel Paese si intensificano e nei suoi ultimi anni di vita Engels segue con interesse la nascita e i primi passi del Partito socialista. Ma questi sviluppi post-risorgimentali riguardano un’altra storia, e forse meriterebbero a loro volta un’antologia di scritti e lettere.

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SCAFFALE
Pagine sull’Italia agli albori del marxismo

 L’intervento di Perry Anderson, «Internationalism. A breviary» si può leggere sul numero 14 (2002) della «New Left Review») ed è disponibile anche online all’indirizzo www.newleftreview.org/?page=article&view=2376. Maurizio Isabella, l’autore di «Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni» (Laterza 2011, pp. 382, euro 28, già edito in inglese nel 2009 per Oxford University Press con il titolo «Risorgimento in Exile. Italian Émigrés and the Liberal International in the Post-Napoleonic Era»), insegna al Queen Mary’s College dell’Università di Londra. Per un’analisi sociale degli esuli si vedano gli studi di Agostino Bistarelli (ad esempio, «Cittadini del mondo? Gli esuli italiani del 1820-1821», “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, n. 4, 2008).

Alla cura di Bistarelli, coordinatore delle attività di ricerca della Giunta centrale per gli studi storici, si deve l’antologia di scritti marx-engelsiani «Sul Risorgimento italiano» (manifestolibri 2011, pp. 270, euro 29). Lo stesso titolo portava la raccolta curata da Ragionieri per gli Editori Riuniti nel 1959, con Prefazione a tutt’oggi fondamentale. In precedenza, Gianni Bosio aveva curato una prima antologia di «Scritti italiani» dei due “fondatori del marxismo” (Edizioni Avanti! 1955 – da non confondere con l’edizione “sovietica” di scritti «Sull’Italia», Progress 1976, oggi disponibile anche in rete sul sito www.criticamente.com/frameset_1024.htm), mentre in seguito Giuseppe Del Bo avrebbe dato alle stampe le loro «Corrispondenze con italiani» (Feltrinelli 1964). La fortuna complessiva di Marx ed Engels in Italia è al centro del bel volume di Gian Mario Bravo, «Marx ed Engels in Italia» (Editori Riuniti 1992) e le prime edizioni italiane (1848-1926) dei loro scritti è ripercorribile grazie ad uno strumento fondamentale, l’accuratissimo catalogo «Diffusione, popolarizzazione e volgarizzazione del marxismo in Italia» di Emilio Gianni (Pantarei 2004, pp. 538, euro 20).

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