Lévinas nell’al di là  della prigionia

FILOSOFIA Da Bompiani i taccuini redatti tra il 1940 e il 1945
I germogli dei temi che saranno alla base delle opere successive nei «Quaderni» dal campo di lavoro

FILOSOFIA Da Bompiani i taccuini redatti tra il 1940 e il 1945
I germogli dei temi che saranno alla base delle opere successive nei «Quaderni» dal campo di lavoro

 Più che un libro un giacimento dal quale, scavando con pazienza, vengono fuori pietre dal valore inestimabile, Quaderni di prigionia e altri inediti (Bompiani, pp. 510, euro 25) è il primo atteso volume, in traduzione italiana, delle Opere di Emmanuel Lévinas che, dopo gli inediti, prevedono la riedizione critica dei titoli più noti. I taccuini di piccolo formato redatti negli anni di prigionia (dal 1940 al ’45), cui sono stati aggiunti testi che vanno dal 1937 fino agli anni ’50, contengono un consistente corpus di frammenti, che descrivono lo stato di sofferenza dei prigionieri del campo di lavoro in Germania, numerosi commenti letterari, parti di un romanzo sull’eros e molto altro.

Di particolare interesse sono quei passaggi, spesso disuniti, nei quali è possibile individuare i germogli dei grandi temi che saranno alla base delle opere successive del filosofo. L’insufficienza dell’essere e la necessità della relazione con l’altro; il limite costitutivo della tradizione filosofica occidentale che non riesce a oltrepassare la condizione «monologica» pur nell’intenzione di instaurare un dialogo autentico con l’altro da sé; l’evidenza dell’inadeguatezza del sé; la centralità del concetto di Infinito che diviene metafora dell’Altro, del prossimo, della relazione sociale. Infine l’importanza dell’eros, tema che Lévinas tentò di affrontare anche nel progetto incompiuto del romanzo.
A sorprendere maggiormente i lettori abituali è l’ampiezza dei riferimenti letterari presenti negli appunti, che vanno ben oltre le note figure di Dostoevskij e Vasilij Grossman di Vita e destino, spesso citati da Levinas in opere e interviste. Nel campo di prigionia il filosofo legge tra gli altri Ariosto, Dante, Proust, Poe, Baudelaire, Léon Bloy.
Da un punto di vista teoretico nei Quaderni si evidenziano le tracce del transito dalle posizioni fenomenologiche iniziali, debitrici di Husserl, nelle quali dominava un «faccia a faccia» tra il soggetto e il mondo o tra una sorta di coscienza trascendentale e le «cose stesse», all’introduzione più esplicita di un «soggetto in quanto corpo», apertura di un «luogo». Non si tratta di un ripudio esplicito delle posizioni di Husserl ma di un tentativo di superare il limite intellettualistico di quella impostazione. In Lévinas permane tuttavia la lezione di Heidegger, la questione del senso dell’essere che si pone nella sensibilità all’Altro, nella responsabilità del Volto, della traccia di quel legame che supera l’incompiutezza del sé.
Con parole illuminanti, in un’intervista rilasciata in occasione dell’uscita dell’edizione francese, Jean-Luc Nancy mette in guardia in modo convincente sul rischio di confondere «la responsabilità per l’altro» con una sorta di obbligo sacrificale. Lévinas è filosofo molto più complesso e non si limita a una convenzionale proposizione di una filosofia dell’ospitalità e del sacrificio per l’altro. Il problema, suggerisce Nancy, è quello di comprendere che «la singolarità di un’esistenza e della sua possibilità di presentarsi e di dire Io non si genera che attraverso il fuori interminabile delle alterità. Non si tratta semplicemente di raccomandare l’accoglienza degli stranieri ma di pensare che l’estraneità è dappertutto». E ancora Nancy conclude che «non è soltanto moralmente che noi abbiamo bisogno degli altri: l’altro è – al contrario – ontologicamente costitutivo dell’essere».
Ulteriore sorpresa in questi appunti è la creatività del linguaggio, del suo potere di evocare poeticamente, di significare al di là di quanto apparentemente dica, mostrando un felice uso della metafora spesso preferita al concetto.
L’idea di infinito, che per Lévinas si sostanzia nella metafora dell’Altro, del quale il Volto è traccia e non segno, consente di leggere la sua opera in maniera laica, sottraendola a una spesso fuorviante lettura religiosa, attribuendole plausibilità e senso a prescindere dall’esistenza di Dio. Pienamente inserito nella tradizione ebraica, commentatore del Talmud, Lévinas sfugge alle griglie di una «filosofia della divinità» conservando l’apertura di un filosofo laico la cui opera appare necessaria – tra le poche nel presente – a riflettere sulla irriducibilità della relazione al sé. Ancor più rilevante appare la convinzione che tale irriducibilità includa la relazione tra il maschile e il femminile. Posizione che ha suscitato in Francia e negli Stati Uniti l’interesse delle teoriche femministe.
La prigionia, anche se non paragonabile a quella dei campi di sterminio, è vissuta come un’esperienza della sospensione del senso: «il prigioniero, come un credente, viveva nell’al di là. Non ha mai preso sul serio la stretta cornice della sua vita, si sentiva impegnato in un gioco che oltrepassava infinitamente questo mondo di apparenze, mangiava fissando gli oceani e il vento delle steppe russe cullava il suo sonno». Enfaticamente Lévinas descrive una privazione che ha restituito il senso dell’essenziale: «La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva. Abbiamo imparato la differenza tra avere e essere. (…) Abbiamo imparato la libertà».
Per un filosofo la cui interpretazione più autentica è stata resa difficile da edizioni sporadiche o intempestive, la pubblicazione di un inedito di questa dimensione fornisce un’occasione preziosa per una puntuale e rinnovata definizione.

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