Quelle che pubblichiamo in questa pagina sono solo alcune delle lettere di detenuti che ogni giorno arrivano nella sede dell’associazione Antigone da ogni istituto penitenziario del Paese. E non sono le più drammatiche. Sono state scelte proprio per la loro dolorosa “normalità “, perché raccontano la quotidianità della vita media di detenzione in una cella italiana. Sono firmate con nomi e cognomi che però abbiamo preferito omettere per proteggere gli estensori.
Quelle che pubblichiamo in questa pagina sono solo alcune delle lettere di detenuti che ogni giorno arrivano nella sede dell’associazione Antigone da ogni istituto penitenziario del Paese. E non sono le più drammatiche. Sono state scelte proprio per la loro dolorosa “normalità “, perché raccontano la quotidianità della vita media di detenzione in una cella italiana. Sono firmate con nomi e cognomi che però abbiamo preferito omettere per proteggere gli estensori.
Dietro ai freddi numeri dell’emergenza carceraria – 67 mila detenuti a fronte di una capienza massima di 43 mila posti, distribuiti nei 206 penitenziari italiani – ci sono vite che scorrono senza alcun senso, senza alcun fine. Non è la funzione rieducativa della pena, o il reinserimento sociale, a delineare un orizzonte per chi è rinchiuso in una cella 23 ore al giorno senza svolgere alcuna attività e senza alcun supporto psico-terapeutico. E, come spiega il magistrato Silvia Cecchi nel suo interessante saggio «Giustizia relativa e pena assoluta: argomenti contro la giuridicità della pena carceraria», appena pubblicato dalle edizioni liberilibri (pp. 178, 16 euro), «la sanzione detentiva comminata per (quasi) tutti i reati mostra la sua abnormità anche in una prospettiva retribuzionistica della pena». Non ci stupisca quindi se il reato – quello commesso o quello possibile – torna ad essere l’unico riferimento culturale del detenuto medio, tanto più se malato o tossicodipendente come accade in un caso su quattro.
L’occasione per portare queste voci fuori dal carcere e fin dentro i palazzi del governo, per far riacquistare loro cittadinanza, ora c’è. Dopo l’accorato appello del presidente Napolitano che sferzava la politica a reagire in fretta per far fronte all’«emergenza» carceri, da mercoledì prossimo prima il Senato e poi la Camera cominceranno a discutere dell’illegalità del nostro sistema penale. Grazie ai Radicali, promotori dell’iniziativa, forse finalmente si riuscirà ad andare oltre quell’unica soluzione proposta dall’attuale governo Berlusconi: il piano di edilizia carceraria.
La pena detentiva, come riassume Cecchi, «va dunque ripensata anche alla luce dell’indirizzo assunto da diversi ordinamenti stranieri che hanno sperimentato sanzioni alternative alla detenzione».
Eleonora Martini
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lettere@ilmanifesto.it Un senso alla pena
Sono un detenuto del carcere di Opera, ma ho presentato la richiesta per essere trasferito a quello di Bollate dove mi piacerebbe continuare gli studi di scuola superiore che ho iniziato nel carcere di Ferrara, ma che ho dovuto interrompere quando sono stato trasferito. Potrei anche continuare il percorso terapeutico poiché sono un tossicodipendente “storico” e, essendo un allevatore e agricoltore, potrei anche accudire degli animali. Nel carcere di Ferrara avevo frequentato un corso di “Controllo dell’aggressività sulla popolazione detenuta” con l’ausilio di due pit bull, riuscendo a prendere anche l’attestato con esito positivo. Ma non credo che queste mie istanze verranno accettate, perché non ho finito l’osservazione con l’educatrice, che è però inesistente. (…) Quando stavo nel carcere di Ferrara nel 2008, ho percepito il sovraffollamento quando in una cella di 9 metri quadrati viene aggiunta una terza branda, di conseguenza in una sezione composta da 25 celle, sono recluse 75 persone, anziché le appena tollerabili 50. Conti alla mano, nel carcere di Ferrara anziché 260, eravamo 530: più del doppio. Per motivi di sicurezza, quindi, non si è più potuto usufruire della socialità alla sera e questo ha influito negativamente sulla mia salute tanto che da allora soffro di stati d’ansia e attacchi di panico, che tuttora curo con antidepressivi. Una volta che ci siamo trovati davanti al magistrato per denunciare tutto ciò, eravamo in tre, questi ha disposto un’ispezione ma subito dopo sono stato trasferito, costretto quindi a interrompere gli studi, l’unico progetto che avevo. Avrei fatto meglio a starmene zitto, perché è la stessa istituzione che insegna l’omertà. Mi piacerebbe fare ricorso alla Corte europea, per riuscire a dare un senso alla mia pena e poter uscire una persona migliore. Fine pena: 2036.
Dieci ore per un medico
Ho 24 anni e sono detenuto del carcere di Caltagirone, vengo da quello di Agrigento dove sono stato rinchiuso per 4 giorni in isolamento senza poter né bere né lavarmi. Dopo l’interrogatorio del Gip, mi hanno trasferito in una cella di circa 9 metri, dove eravamo in tre, con un bagno senza bidet, e con sola acqua fredda. Le docce sono fuori, sono tre ma ne funzionano solo due, per 75 persone, e sei fortunato quando trovi l’acqua calda. Da quando hanno costruito questo carcere nel ’75, i termosifoni non hanno mai funzionato. Se vogliamo le celle pulite, dobbiamo essere noi detenuti a pensarci e dobbiamo provvedere anche a comprare i detersivi. Se non abbiamo i soldi, viviamo nel lerciume, come animali e questo io credo che non sia giusto e sia contro la nostra Costituzione. Una volta si è rotto il gabinetto e per cambiarlo abbiamo aspettato due mesi! L’ora d’aria funziona così: si dovrebbe scendere in cortile dalle 8.30 alle 10.30 e poi il pomeriggio dalle 13 fino alle 15, invece ci fanno scendere sempre mezz’ora più tardi e quando protestiamo, ci rispondono che manca il personale. 120 metri quadri di muro, senza un angolo di verde, puoi vedere solo il cielo se alzi gli occhi. Prima di incontrare la famiglia per un colloquio, ci perquisiscono due volte, ci fanno aspettare più di un’ora (la mia famiglia a volte aspetta anche dalle 4 alle 5 ore). Ho fatto molte domande per lavorare o per fare qualche corso, tutte con esito negativo. Per non parlare dei medici: una volta che avevo 40 di febbre il medico, chiamato alle 10 del mattino, è arrivato alle 20.30! Potevo anche morire e loro erano tutti tranquilli.
Il dentista dopo tre mesi
Sono detenuto nel carcere di Bollate ma è di quello di Monza che voglio parlare, perché ero costretto a stare in tre in una cella progettata per una persona. All’inizio dormivo su un materasso per terra, dopo qualche mese hanno portato una branda, ma a quel punto non potevamo più muoverci e quindi per poter stare in piedi eravamo costretti a ripiegarla e addossarla al muro. Il bagno, senza finestra, era piccolissimo e l’acqua era solo fredda. Le docce in comune erano in uno stato pietoso: piastrelle rotte e muffa sui muri, spesso senza acqua calda. Ero detenuto in regime protetto. L’unica attività che ho svolto in due anni e sei mesi di carcerazione è stata quella di scopino per un mese. Ho frequentato un corso di inglese di quattro mesi, tre ore per una volta alla settimana. I miei familiari li vedo una volta al mese perché abitano lontano e sono anziani. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, per fortuna solo una volta ho avuto bisogno di un dentista, che mi ha visitato dopo tre mesi.
Il calvario di noi familiari
Sono un familiare di un detenuto nel carcere di Cuneo e abito a Napoli. Da poco tempo hanno affisso una circolare che avvisa che il colloquio si deve prenotare prima e così anche l’orario. Inoltre bisogna presentarsi mezz’ora prima. Ma noi come facciamo a garantire una tale precisione? Questa è l’ennesima difficoltà che creano a noi familiari del 41 bis.
A mezzo metro dal mio naso
Sono un detenuto nell’inferno del carcere di Busto Arsizio e per quasi un anno sono stato in una cella al limite della sopravvivenza, in un reparto per tossicodipendenti. La permanenza in questa cella, essendo umida e buia, mi ha comportato la perdita di qualche decimo della vista. Dormivo nella terza branda di un letto a castello, con il costante rischio di cadere e, ogni volta che mi alzavo velocemente, picchiavo la testa contro il soffitto, a mezzo metro dal mio naso. Ho presentato una denuncia alla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo circa un anno fa, ma dopo uno scambio di lettere, non ho più saputo nulla. Forse perché sono indigente e non posso permettermi un avvocato?
Tra scarafaggi e parassiti
Sono detenuto nel carcere circondariale di Como ma sono stato qualche anno in quello di San Vittore, dove le condizioni erano invivibili. Il bagno era unito alla cucina, dove proliferavano scarafaggi e parassiti di ogni tipo, doccia esterna in condizioni igieniche insostenibili, assenza di bidet e quindi costretti a lavarci con delle bottiglie riempite con l’acqua, le finestre a bocca di lupo non si potevano aprire perché incastrate dalla terza branda di un letto a castello. Solo tre ore d’aria, di cui mezza per la doccia. Fine pena: ottobre 2015.
Si muore nell’indifferenza
Siamo un gruppo di persone detenute nella sezione F del carcere di Carinola e viviamo confinati in celle le cui dimensioni non superano gli 11-12 mq. e, si badi, che in questi metri sono inclusi gli spazi occupati da quattro brande e relativi armadietti (in gergo bilancette), le finestre sono poste in alto e con vetri opachi che non consentono la visione diretta all’esterno, l’illuminazione della cella è insufficiente e non consente di leggere e studiare agevolmente. I servizi igienici non rispettano la dignità della persone e in queste condizioni siamo costretti a vivere per 20 ore al giorno. I materassi e i cuscini (in realtà delle spugne) sono sporchi e maleodoranti nonché pieni di batteri e microbi e Dio sa cos’altro e quando sei costretto a dormirci per anni, non è questione da poco, ma si tramuta in un vero problema di salute con sviluppo di patologie che vanno dalle allergie gravi alle patologie respiratorie. I colloqui con i nostri familiari si svolgono in locali inadeguati (un sudario d’estate, una cella frigo d’inverno) con un muro divisorio di mussoliniana memoria, che impedisce anche un semplice abbraccio ai nostri cari, con sgabelli fissi in cemento a spigolo vivo che sono un pericolo per i nostri bambini. Una situazione sanitaria che definire da terzo mondo è un eufemismo, basti dire che in questo carcere si muore tra l’indifferenza generale: tre i casi da novembre 2010 ad oggi. Dulcis in fundo, una ottusa visione di lombrosiana memoria dell’esecuzione penale da parte dell’illuminata direzione del carcere non consente alcun tipo di percorso rieducativo a cui la pena dovrebbe tendere così come previsto dall’art. 27 della Costituzione.
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