Le relazioni pericolose del lavoro

CLASSI A VENIRE
I lavoratori della conoscenza si scoprono eguali nella precarietà  e diversi nella rappresentazione sociale. E domani al Teatro Valle un’assemblea affronterà  una condizione sociale messa a dura prova della crisi economica Genesi di una espressione che spesso viene usata come sinonimo di un ceto medio impoverito in certa di rivincita

CLASSI A VENIRE
I lavoratori della conoscenza si scoprono eguali nella precarietà  e diversi nella rappresentazione sociale. E domani al Teatro Valle un’assemblea affronterà  una condizione sociale messa a dura prova della crisi economica Genesi di una espressione che spesso viene usata come sinonimo di un ceto medio impoverito in certa di rivincita

 La rilevanza dell’occupazione del Teatro Valle di Roma è data da una programmazione «autogestita» di iniziative, spettacoli, momenti di discussione che, nella grigia estate alle nostre spalle, ha costituito spesso una delle poche oasi di creatività e qualità in questa metropoli. Oltre a questa indubbia capacità di far diventare lo storico teatro capitolino in un luogo importante nella vita culturale cittadina, c’è un altro merito che va ascritto ai lavoratori dello spettacolo che da oltre cento giorni hanno riportato in vita quel luogo. Il teatro Valle è infatti diventato un vero e proprio laboratorio culturale per la definizione della conoscenza come bene comune, con l’obiettivo di elaborare uno statuto giuridico sui beni comuni assente nell’ordinamento costituzionale italiano. Ed è all’interno di questo percorso che si sono «consumate» altre esperienze, che vanno bel al di là, della specificità di una condizione lavorativa, come quella intermittente dello «spettacolo». Il riferimento è ai molti incontri che hanno costellato i pomeriggi e le sere del Valle dedicati all’industria culturale, al cinema, al teatro, alla scuola e all’università, alla crisi economica. Una promettente presa di parola attorno ai contemporanei «apparati ideologici» della società contemporanea da parte di chi, spesso in una situazione di totale precarietà, ne ha garantito il funzionamento. Uno scambio di esperienze e di condivisione di una stessa condizione lavorativa che ha rappresentato un accumulo di informazione attorno a eterogenee condizioni di lavoro, e quindi di sfruttamento, che possono essere facilmente considerate come «inchieste in divenire».

Dunque, un venir meno di un sentimento di complicità e subalternità verso la «fabbrica del consenso» che costringe tuttavia ad articolare una analisi puntuale delle logiche e delle organizzazioni produttive operanti all’interno dell’industrie editoriale, cinematografica, dei teatri, delle università e della costellazione di piccole e medie imprese della formazione. Ma proprio l’accumulo di informazioni rende evidente che l’«industria della conoscenza» è stata ed è tuttora uno straordinario laboratorio all’interno del quale sono state affinate e sperimentate forme diversificate di governo del processo produttivo a partire da una generalizzata precarietà dei rapporti di lavoro. Così, all’interno di quegli incontri è maturata l’idea di un’assemblea dei «lavoratori della conoscenza», prevista per il 30 Settembre proprio nei locali del Teatro Valle.
Doppio movimento
La ricchezza delle esperienze, la capacità di sviluppare una analisi su come funziona l’industria culturale, dell’Entertainment, della formazione costringe tuttavia a un doppio movimento teorico: l’individuazione dei punti in comune tra eterogenee condizioni di lavoro e, allo stesso tempo, la necessaria scansione analitica delle specificità che caratterizzano i diversi settori produttivi. La presa di parola di un ricercatore o un docente universitario, un pubblicitario, un attore, un cameramen, un fonico, uno sceneggiatore, un editor, un teatrante, un consulente organizzativo, un costumista è quindi il primo passo da fare, a cui però ne devono seguire altri se non si vuol perdere, nella reiterata messa in evidenza delle condizioni di assoggettamento, il carattere conflittuale di quella condizione di lavoratore della conoscenza. Una presa di parola che non può non prevedere l’irruzione sulla scena di una differenza tra i sessi troppo spesso cancellata da una rappresentazione «neutra» della condizione lavorativa. E allo stesso tempo che punti a dare forma politica a quella tensione per il superamento di una «miseria della condizione precaria», che compassionevolmente è riconosciuta dalla discussione pubblica, ma che è quasi illustrata come uno stato di natura insuperabile. La presa di parola come primo passo di un percorso teorico e politico che abbia la capacità di inscrivere le narrazioni in un processo di condivisioni che punti tuttavia al superamento di una rappresentazione minimale e pauperistica del proprio lavoro.
Gli abiti consunti dello status
La precarietà è certamente il vero nodo da sciogliere, ma per quanto riguarda i lavoratori della conoscenza va subito detto che è una espressione socialmente necessaria che va tradotta affinché possa essere compresa ogni volta che l’attenzione si sposta da un settore all’altro. Difficile infatti che un ricercatore o un editor di spogli dagli abiti del suo lavoro a favore di una divisa – il lavoratore della conoscenza – sentita come una camicia di forza che cancella il contenuto specifico della propria esperienza lavorativa. Insomma, niente di più e niente di meno che la vecchia oscillazione tra lavoro astratto e lavoro concreto. Da qui la necessità di segnalare i pericoli, le insidie, ma anche le potenzialità che si celano dietro l’espressione socialmente codificata di lavoratore della conoscenza.
La genesi e la genealogia del lavoratore della conoscenza sono state più volte ricostruite da Sergio Bologna. Della sua sua ricostruzione storica – apparsa nella rivista «L’Ospite ingrato» del centro Franco Fortini e pubblicata da Quodlibet e nel libro Freelance (Feltrinelli) – vanno sicuramente valorizzate le parti che segnalano le discontinuità semantiche intervenute a causa delle discontinuità che hanno caratterizzato lo sviluppo capitalistico. Sicuramente il knowledge worker indicato dal teorico del management Peter Drucker il fulcro dell’impresa capitalistica degli anni Cinquanta e Sessanta è cosa ben diversa dai lavoratori della conoscenza che le teoria dell’organizzazione individuava nei produttori di software negli anni Ottanta del Novecento o, più recentemente, qualificati come «classe creativa» da Richard Florida.
A buon diritto Sergio Bologna segnala anche che è una galassia lavorativa spesso richiusa dentro gabbie giuridiche – il lavoro autonomo – diverse da quelle definite dal giuslavorismo come dominanti nel Novecento. Ciò che è invece importante è che, in una realtà segnata da una pervasiva precarietà, la qualifica di lavoratore della conoscenza viene usata per segnare una differenza, una distanza tra diversi forme del lavoro. In altri termini, è l’espressione usata per distinguere il lavoro vivo cosiddetto immateriale da quello cosiddetto materiale. È dunque una convenzione che rischia di mettere tra parentesi proprio ciò che in questo ultimo, denso anno era diventato un lessico comune nelle mobilitazioni dei ricercatori e degli studenti universitari, ma anche nelle tante mobilitazioni che avevano visto come protagonisti i lavoratori dello spettacolo e della ricerca. Il lavoro della conoscenza è così indicato come inconciliabile con quello materiale. Una deriva, questa, che riduce il lavoratore della conoscenza a un ceto medio declassato dalla crisi economica globale, evocando la necessità di ripristinare uno status perduto. Un’immagine rassicurante per chi continua a rimpiangere l’antica costellazione del lavoro, all’interno della quale i tempi indeterminati nelle industria potevano essere collocati accanto, in posizione distinta, ai white collar. Per sfuggire a questa deriva va affermato che il lavoratore della conoscenza è solo una forma di un lavoro sans phrase.
Sia ben chiaro. Le discontinuità semantiche messe in evidenza da Sergio Bologna segnalano sempre una conseguente e differente connotazione teorica-politica. Da qui la necessità di operare proprio quel doppio movimento in cui si riconosce gli elementi comuni per poi declinarli all’interno di specificità settoriali. E l’elemento comune è proprio la precarietà. Nei mesi scorsi, su questo giornale, è stato segnalato un libro dello studioso inglese Guy Standing – The Precariat. The new dangerous class, Bloomsbury Academic. Ne ha scritto Andrea Fumagalli l’8 giugno del 2001 – che documenta come la precarietà non sia un fenomeno transitorio, bensì immanente allo sviluppo capitalistico che si è soliti definire neoliberista o cognitivo. E di come la condizione precaria presenti caratteristiche anomale rispetto ad altre stagioni novecentesche. Non a caso Standing parla di una classe in divenire che non diventerà mai classe.
Una costellazione da scoprire
Una tesi che aiuta certo nell’individuare la condizione comune, ma segnale anche il fatto che l’universo del lavoro non ha un sole attorno al quale ruotano tanti pianeti e satelliti. Siamo in presenta di una costellazione chiamata semplicemente lavoro vivo.
Per questo lavoratore della conoscenza e precarietà sono solo due modi per indicare la stessa condizione di sfruttamento. In altri termini, affrontare il tema dei lavoratori della conoscenza significa scendere negli inferi degli atelier della produzione e scoprire che in quei luoghi ci sono altre figure del lavoro che presentano caratteristiche non molto diverse da chi ha come macchina del proprio lavoro un computer, una macchina da presa o il suo «cervello». Sempre nei mesi scorsi, al Teatro Valle hanno occupato le sedie della platea e del palco, scrittori o operatori dell’industria editoriale che hanno parlato della loro condizione lavorativa, scoprendo come la precarietà abbia garantito non solo il funzionamento delle case editrici e attivato processi innovativi nelle redazioni, in una relazione però di complicità nel veicolare una ideologia divenuta dominante nel corso del tempo. Per rompere tale circolo vizioso non servono solo definire criteri di qualità per le opere pubblicate, bensì spezzare la relazione servile che lega molti lavoratori della conoscenza alle gerarchie espresse dalle imprese editoriali. Da questo punto di vista vale sempre ricordare il lavoro seminale di Luciano Bianciardi, laddove indicava il carattere ambivalente della vita agra dell’operatore culturale. Sfruttato, certo, ma anche protagonista nell’elaborare la cultura dominante.
È questa catena di complicità e culto della propria specificità lavorativa che va spezzata. E per spezzarla non servono certo deontologie o richiami a criteri metafisici di qualità, bensì la volontà di superare la «miseria della condizione precarie».

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