SCAFFALE «Diseguaglianze senza confini», un nuovo saggio dello studioso tedesco Ulrich Beck per Laterza
Ritenute un residuo del passato grazie all’azione del welfare state e collocate alla periferia del sistema-mondo, le diseguaglianze sociali sono tornate al centro della scena con la crisi del neoliberismo sotto il nome di «nuove povertà »
SCAFFALE «Diseguaglianze senza confini», un nuovo saggio dello studioso tedesco Ulrich Beck per Laterza
Ritenute un residuo del passato grazie all’azione del welfare state e collocate alla periferia del sistema-mondo, le diseguaglianze sociali sono tornate al centro della scena con la crisi del neoliberismo sotto il nome di «nuove povertà »
Nel 2008 la Germania si credeva al riparo dall’onda di piena dei mutui subprime. Tempo un anno e l’amara scoperta che molte banche made in Deutschland erano coinvolte nella «crisi del debito sovrano» rendeva evidente il fatto che nessuno era al riparo di quell’onda di piena che stava mettendo in discussione una forma specifica del capitalismo chiamata neoliberista.
Alle prime avvisaglie della crisi, Ulrich Beck aveva scritto che nella globalizzazione non c’era nessun l’ombrello che potesse mettere al riparo dall’onda dei mutui subprime. La sua posizione era stata però ritenuta prigioniera di un decennio drammaticamente chiuso con la caduta delle Torri Gemelle. La globalizzazione, questa la tesi dei suoi critici, doveva dunque lasciare la scena per far posto agli antichi stati nazionali e a un rinnovato sistema di relazioni internazionali incardinato su di essi.
Oltre il nazionalismo
Beck aveva risposto alle critiche, nel saggio Potere e contropotere nell’età globale (Laterza), che la crisi del liberismo mostrava semmai l’irrilevanza teorica di chi ormai guardava alla Terra come un mondo piatto, cioè senza conflitti. Ma nulla attestava l’inizio di una fase di «deglobalizzazione». La soluzione al disordine mondiale, sosteneva il teorico della «società del rischio», era inoltre a portata di mano. Si trattava di rendere operativa una democrazia cosmopolita che facesse tesoro della riduzione della sovranità nazionale, basata però sull’attivismo manifestato dalla società civile globale e sugli organismi sovranazionali esistenti, ma profondamente riformati.
È su questo crinale che si snoda il testo di Beck dedicato alle diseguaglianze sociali tanto all’interno delle realtà nazionali che a livello sovranazionale (Diseguaglianze senza confini, Laterza, pp.56, euro 9). Come è sua consuetudine, lo studioso colloca il tema in una prospettiva storica al fine di sottolineare l’esaurirsi della spinta propulsiva del «nazionalismo metodologico», che, in Europa e negli Stati Uniti, ha posto le diseguaglianze al di fuori dei confini in base alla loro irrilevanza politica. Così, mentre lo stato sociale operava a mitigarle sul piano interno, facendole diventare politicamente irrilevanti, le scienze sociali legittimavano quelle operanti sul piano globale attraverso attraverso una categoria, la povertà, che era però prerogativa del Sud del mondo. Le diseguaglianze erano cioè un residuo irrilevante sul piano nazionale, mentre la povertà era sempre collocata alla periferia del sistema-mondo.
L’ordine del discorso dominante era cioè vincolato al precetto di «volgere gli occhi altrove istituzionalizzato». La globalizzazione, tuttavia, aveva messo in rilievo l’ambiguità e l’ipocrisia teorica di tale analisi, dato che l’Unione europea è stata costruita, ma questo Beck evita di ricordarlo, proprio su politiche di esclusione e di «respingimento» dei migranti che esercitano il loro diritto alla mobilità non solo come fuga dalla povertà, ma come affermazione della loro indisponibilità a vivere nel regno della necessità. Ma quello che lo studioso tedesco invece sottolinea è che le diseguaglianze sono tornate ad essere politicamente rilevanti tanto in Europa che negli Stati Uniti.
Il divorzio tra politica e dominio
La novità di questi ultimi anni è che hanno raggiunto un livello di guardia che mette in discussione la tenuta delle società capitalistiche e mostra come il neoliberismo non sempre sia compatibile con la democrazia. Beck punta l’indice sull’avvenuta separazione tra politica (governo della cosa pubblica) e dominio (esercitato dalle élite globali), proponendo nuovamente un consolatorio sguardo cosmopolita come antidoto al populismo nazionalista e ai cantori del neoliberismo globale, prospettive politiche l’una complementare all’altra.
Pur nella sua brevità il saggio di Beck costringe a fare i conti su cosa sia il neoliberismo, in che rapporto sono le diseguaglianze con la povertà. E, infine, la domanda sempre dirimente: che fare?.
Il neoliberismo, viene sostenuto, è al suo stadio terminale. Affermazione che difficilmente può essere contestata, se per neoliberismo si intende solo la dismissione dello stato nel regolare l’attività economica. Ma di fronte a tale semplicistica concezione, vanno ricordati i seminari di Michel Foucault sulla biopolitica e la Breve storia del neoliberismo di David Harvey, laddove entrambi gli studiosi, seppur da prospettive teoriche diverse, convergono nell’illustrare che il neoliberismo, più che un modello economico è stato ed è una vera e propria concezione della natura umana dei rapporti sociali, all’interno dei quali lo stato ha sempre avuto un ruolo determinante nel legittimare la figura dell’individualismo proprietario. L’intervento statale, infatti, si è moltiplicato, arrivando a legiferare su aspetti della vita sociale finora inimmaginabili, puntando così a definire regole di comportamenti dalla sessualità alla famiglia, dal lavoro all’attività di consumo al fine di legittimare la figura dell’individuo proprietario. Per questi motivi, nel neoliberismo possono convivere la «versione» californiana, che vede la comunità e la famiglia come un ostacolo, e la sua versione populista, «comunitaria», così in auge nel Tea Party statunitense, nella Lega Nord, nella destra di Nicolas Sarkozy o che accompagna, come un fratello gemello, il rigore di molti tecnocrati europei, tra i quali Giulio Tremonti.
Cosmopolitismo del capitale
L’elenco potrebbe continuare a lungo. Una riflessione a parte meriterebbero la Cina degli anni Novanta del Novecento o il recente documento uscito dalle segrete stanze di Pechino sull’armonia sociale su cui Angela Pascucci e Michelangelo Cocco hanno scritto su questo giornale (8 Settembre). Tutto questo per dire che il neoliberismo più che una unica release manifesta una capacità mutante di adattamento a dimensioni locali, nazionali, portando a rinnovato protagonismo proprio quegli stati-nazione che venivano dati per spacciati (su questo tema va segnalato il lungo articolo dell’economista francese Frédéric Lordon pubblicato nella prossima edizione italiana de «Le Monde Diplomatique» in uscita il 15 Settembre). È dunque prematuro decretarne la morte. Allo stesso tempo, è all’interno di questa cornice che può essere letta la dialettica tra diseguaglianza e povertà. La prima era sì presente nei paesi capitalistici durante la breve stagione del welfare state, anche se una delle mission dello stato nazionale era il loro contenimento. La povertà, invece, evocava situazioni di indigenza, di abbrutimento superabili appena il capitalismo avrebbe svelato la sua natura «cosmopolita». C’è però il fatto che questa differenza tra diseguaglianza e povertà, come attesta la figura del working poor, del lavoratore povero, mettendo così in discussione l’idea che il lavoro potesse costituire la via maestra da imboccare per sconfiggere le povertà vecchie e nuove. Sarebbe dunque il caso di parlare di povertà assoluta e di povertà relativa, le due facce di una medaglia che vede le diseguaglianze come fattori costitutivi del capitalismo contemporaneo.
La terza domanda – che fare? – non ha ancora risposte esaustive. È nell’agire politiche che può prendere forma un altro ordine del discorso. In un libro poco citato -Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi – Beck ha proposto il reddito di cittadinanza come misura per sottrarre i lavoratori a un destino di precarietà e di povertà. E’ questo un primo tassello per comporre il puzzle di un «fare» che punti a un superamento tanto delle diseguaglianze che della povertà.
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