Le parole di resistenza

Jean- Marie Straub di nuovo ospite del teatro Buti dove porta in prima nazionale «La madre», nuovo capitolo di un intenso work in progress basato sui «Dialoghi con Leucò» di Pavese.Interpreti Giovanna Daddi e Dario Marconcini

Jean- Marie Straub di nuovo ospite del teatro Buti dove porta in prima nazionale «La madre», nuovo capitolo di un intenso work in progress basato sui «Dialoghi con Leucò» di Pavese.Interpreti Giovanna Daddi e Dario Marconcini

 BUTI.La madre è un’invenzione italiana, dice Jean-Marie Straub. La «mamma», precisa calcando con intenzione la parola. Per un momento si è concesso a un applauso sul palcoscenico, ma stando da un lato e senza quasi guardare il pubblico del teatro. E forse per esorcizzare l’imbarazzo del momento, vuol prendere ironicamente le distanze dal «soggetto» dello spettacolo, La madre appunto. Sembra allora di ritrovare nella voce roca del cineasta francese il tono di burbera asprezza che si è a volte frainteso e non è invece che la maschera dietro cui cela una generosità sperimentata dagli attori che lavorano con lui.

Straub è tornato di nuovo alle colline toscane e all’autore che frequenta da più di trent’anni. Era la fine degli anni settanta quando si trasferì qui per girare Dalla nube alle resistenza, primo incontro con l’opera di Cesare Pavese. Era stato allora soltanto un tratto di un cinema povero fatto insieme alla sua compagna Danièle Huillet in maniera orgogliosamente indipendente, senza qualsiasi orpello, ispirato a una matrice letteraria ma che letterario non si è mai voluto, secondo uno stile che è scelta politica e anche morale. Dal Böll degli esordi, la già folgorante Cronaca di Maria Magdalena Bach del ’68, al Kafka dei Rapporti di classe, passando per il tragico di Hölderlin con cui usciva allo scoperto la vocazione teatrale che presiede all’uso dei testi. Il suo farne corpi e respiri. Laddove le parole sono i rapporti fra le persone. È diventato, il periodico ritorno al Pavese dei Dialoghi con Leucò, uno straordinario dilatato work in progress. «Pavese mi interessa perché non si compiace di se stesso», ci aveva detto in un’altra occasione. C’è di più.
Da più di un decennio Straub ha trovato ospitalità creativa presso il teatro Buti. Qui sono nati gli ultimi lavori, secondo una modalità produttiva ormai sperimentata in cui la messa «in scena» si intreccia con la messa «in spazio» davanti alla cinepresa. In questo caso rovesciando il procedimento abituale, giacché le riprese nella campagna di Acciaiolo hanno preceduto la messinscena teatrale che si presenta dunque come un punto d’arrivo, piuttosto che una fase di una lunga preparazione che ha per cardine il lavoro dell’attore. Non cambia invece lo stile della lotta, brechtianamente parlando, del regista. La scelta dell’immobilità quasi assoluta degli interpreti, Giovanna Daddi e Dario Marconcini, che gonfia il peso delle parole. Il silenzio che le accompagna, appena disturbato, nel film girato all’aperto, dai suoni della natura, lo stormire di un albero, un soffio di vento.
Si inizia a sipario chiuso con il Mahler dei Rückert Lieder. Come un momento di decantazione o meglio di adattamento alla pressione dell’evento, che non può avvenire troppo in fretta se non si vuol rischiare una sorta di embolia emotiva.
Perché poi, finito questo prologo, nessun commento musicale può sovrapporsi all’immagine. Perché l’immagine intesa come inquadratura (anche quella della scena teatrale) è la realtà oggettiva con cui occorre fare i conti. Qui non c’è narrazione o psicologia a cui appendersi. Ma è anche, la scelta evidentemente non casuale della musica di Mahler, un modo per introdurre al clima dello spettacolo. Quella sensazione di essere «perduto al mondo» che l’accompagna.
La madre è fra i ventisette dialoghi uno dei più densi e ardui da dipanare. Quello forse che più rende esplicito il senso della perdita di ciò in altri tempi altri uomini seppero e videro. Quei loro incontri. L’enigmatico sorriso degli dèi. Qui in gioco c’è solo la condizione umana, e una inesausta ricerca di senso.
Seduto su una panchina, Meleagro riavvolge il filo della sua vita di cacciatore, il suo destino legato a un tizzone che al momento in cui nacque la madre aveva sottratto al fuoco per farlo vivere e che nel fuoco aveva ributtato nel momento dell’ira, condannandolo alla morte. Ma il mito è un riflesso lontano. Anche l’incontro fatale con la ninfa Atalanta, l’insuperabile cacciatrice cui aveva fatto dono della pelle cinghiale ucciso, scivola in un lessico familiare. La casa vuota, il letto deserto. La posa dell’uomo, il corpo piegato in avanti a guardare in terra davanti a sé, con le braccia in appoggio sulle ginocchia e le mani intrecciate, è quella del contadino o dell’operaio di un tempo al termine del lavoro. Ha smesso la fatica di vivere, Meleagro. Ma continua a interrogarsi.
Accanto a lui, la figura femminile in cui ha preso corpo il dio Ermete è poco più di una voce interiore. Non lo guarda, mai. Anche se lo slancio immobile del corpo va nella sua direzione. Dialoga con lui rimandandogli risposte che l’uomo sa già. La mano destra appoggiata sul ventre suggerisce, in maniera quasi pittorica, l’idea della maternità. E questo gesto immobile ci appare d’improvviso memorabile (Benjamin avrebbe forse parlato di un gesto citabile), nella sua capacità di svelamento.
Ciò di cui è capace Straub è di far parlare le parole. E di farle ascoltare, con tutto il loro peso specifico. Non è solo questione del loro contenuto, che non ci sarebbe bisogno di cinema o teatro. E nemmeno della partitura musicale in cui si distendono, che pure conta, il ritmo con cui scorrono, rigoroso come un metronomo, modulato dall’artefice su una sorta di pentagramma che detta i tempi e le pause. Vedi se ti ricordi le parole che disse, chiede Ermete. E quel bisogno di ricordarle, le parole, è anche nostro, di noi che viviamo nel frastuono assordante di parole inascoltabili, quelle urlate nell’insopportabile circo dei talk show al pari di quelle balbettate nel segreto dei telefoni intercettati. Per il breve momento di uno spettacolo siamo di messi di fronte a parole che ci dicono una possibilità di resistenza.
Dobbiamo essere grati a questo breve momento di teatro. Dobbiamo essere lieti che si produca all’inizio di una nuova stagione teatrale. Come a tracciare una linea di demarcazione. A indicarci che c’è ancora un teatro di cui vale la pena parlare. Per il quale vale ancora la pena cercare le parole per dirlo.

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