Le donne che mi hanno salvato

Amori e libertà , la vita e Trieste: il labirinto di Boris Pahor

Amori e libertà , la vita e Trieste: il labirinto di Boris Pahor

  L’ appuntamento è al Bar Lux di Prosecco, in collina, otto chilometri da Trieste, e non distante dalla sua abitazione. «Meglio qui che in casa mia», sorride, Boris Pahor, proponendo di cominciare con un caffè. «Mi tiene su», dice, mentre si dirige verso una saletta, alle spalle del bancone.
Domani esce Dentro il labirinto (Fazi Editore), pubblicato nel 1985, ma solo ora in edizione italiana. Triestino di lingua slovena, il grande vecchio, più volte candidato al Nobel per la Letteratura, ha compiuto da pochi giorni 98 anni. L’avevamo incontrato, lo scorso gennaio a Lubiana, quando i francesi lo onorarono con la medaglia di Commendatore delle Arti e delle Lettere (ma aveva già ricevuto altre onorificenze da Parigi, fra cui la Legion d’Onore), e in quell’occasione lo scrittore si lasciò andare ad alcune confidenze, per così dire, private. Una, in particolare, ci era rimasta impressa. Parlandoci del suo matrimonio, celebrato negli anni 50 con rito civile («Avrei voluto mantenere una libera unione ma riuscii ad oppormi soltanto alle nozze religiose, diversamente le famiglie ne avrebbero sofferto troppo»), motivò così la riottosità verso ogni legame codificato: «Dopo aver vissuto un’esperienza come quella del campo di concentramento (narrata in Necropoli, la sua opera più famosa ndr), la libertà ritrovata diventò, per me, il valore supremo. Non c’è amore o fede politica, pur importanti, che possano vincolarla».
Pahor è un uomo libero. Nel profondo. La sua avventura esistenziale, riflessa nei libri, redatti in lingua slovena (quasi a dispetto della sua laurea in Letteratura italiana, conseguita a Padova), ne è la testimonianza sincera. Anche se i suoi ideali di nazionalista convinto, fuori tempo massimo secondo alcuni, indispettiscono i triestini italiani e non solo. Egli ha via via denunciato gli orrori del nazismo e del fascismo («Che ci rubò l’identità e annientò la nostra cultura»), poi del comunismo, «quello ideologico e miope — osserva ora — degli stessi sloveni, che furono miei compagni di strada nella lotta per la liberazione».
Il protagonista di Dentro il labirinto è il giovane Radko Suban. Figura presente anche in Primavera difficile (1958) e in Oscuramento (1975): i francesi (primi traduttori di Pahor) l’hanno chiamata trilogia triestina. «In realtà — spiega l’autore — si tratta di tre romanzi indipendenti». Essi ripercorrono gli anni più difficili del capoluogo giuliano, dal 1943 al 1949: storie individuali nella storia della Trieste dei conflitti nazionali e civili, delle ferite aperte dalle lotte di resistenza e dai contrasti tra italiani e sloveni, tra i seguaci di Tito e i fedeli alla politica sovietica, tra ex collaborazionisti e partigiani.
In questo clima, Radko Suban, democratico senza alcuna tessera, si sente un marziano: «Da quando aveva intuito che i capi del Partito erano interessati soprattutto al mantenimento della linea ideologica il suo atteggiamento critico si era mutato in aperta contestazione. D’altro canto, essendo dichiaratamente contrario all’imperialismo, si schierava col movimento progressista, pur rifiutandone la scelta di etichettare come reazionari, spie o fascisti, tutti gli sloveni non comunisti o restii a collaborare con i comunisti». Radko si tormenta nel constatare che la lotta di liberazione partigiana pluralistica, animata da un forte valore etico, è stata monopolizzata dai comunisti, «che non si comportano proprio da irreprensibili paladini della libertà e della democrazia». Il giovane sogna Trieste città libera, multiculturale, sgombra da ideologie predominanti, dove gli italiani e gli sloveni abbiano pari dignità. Ma dovrà disilludersi.
«Radko Suban sono io — avverte Pahor —. Il romanzo narra del mio ritorno a casa, nel gennaio del 1947, reduce dal lager nazista e, quindi, da un periodo di sanatorio in Francia». «Avrei potuto rientrare prima — continua — ma l’amore per una giovane infermiera, colta e sensibile, m’indusse a trattenermi fuori più a lungo». L’infermiera Arlette (nome di fantasia come gli altri personaggi del libro) è la donna che, pur amandolo, alla fine si prende un marito scialbo ma benestante, imposto dai genitori e, dunque, rinuncia a raggiungere Radko a Trieste. Continuerà ad amarlo, a distanza. Nelle lettere che si scambiano, tra tormenti, incertezze, complicità, si svelano i caratteri di entrambi. «Piccola mia, ieri sera, quando ho cominciato a scriverti, ero terribilmente turbato dal fatto che, nella stessa lettera, tu parli dell’ingresso in una famiglia sconosciuta che ti ha valutata come un capo di bestiame alla fiera e della tua risoluzione di raggiungermi qui a Trieste. Ho avuto l’impressione che tu stia facendo violenza a te stessa. Dapprima critichi l’ambiente borghese e il giovane che giudica una porcheria il romanzo di Gary che con la sua bellezza ci ha affascinati; poi, nella seconda parte, che appartiene a noi due soltanto, ritrovo la ragazza che mi è così vicina come lo era in dicembre a Parigi…». Arlette: «Ti penso spesso, spessissimo, ma non così spesso come vorrei. Mi capita di pensarti anche quando sono con i genitori di Alfred, anzi soprattutto allora. Li osservo con i tuoi occhi e ciò che una volta mi sfuggiva ora assume un certo peso…». L’amore del passato, invece, è Mija, annientata dalle atrocità dei nazisti, che affiora nella memoria del giovane reduce, e lo conforta. Infine, Neva, la comunista tutta d’un pezzo. Si amano brevemente («Da persone libere», l’aveva avvertita), lei rimane incinta. Lui è disposto a riconoscere il bambino, ad occuparsene, non a sposarla: «Non posso sentirmi libero, se sono legato…». Neva lo schiaffeggia, è la fine della loro storia. E del romanzo, che si chiude con la partenza di Radko da Trieste.
Gli amorosi sensi del protagonista (molto legato anche alle due sorelle, una della quali morirà di tisi tra le sue braccia), illuminano, con lampi di «autocoscienza», una vicenda complessa. Radko Suban si rende conto che dovrà trovare la sua strada, dentro il labirinto ostile di una città in bilico, dove le relazioni umane, specie con gli italiani, sono per lui sempre più difficili.
Riflette: «Avrebbe sbagliato di grosso chi lo avesse accusato di opporsi ai rapporti più stretti con la popolazione italiana. Erano proprio la dualità culturale e la peculiarità linguistica della sua città i due valori che gli facevano amare la terra natia. Era nato anfibio e non aveva alcuna intenzione di mutarsi in qualcosa d’altro. Si rendeva conto che doveva continuare a coltivare la propria specificità. Era fuori questione che, quale membro di una comunità autoctona, fosse costretto a identificarsi politicamente con una comunità linguistica diversa che, oltretutto, in città beneficiava di un ordine che ne privilegiava la lingua ovunque».
Si aspetta reazioni critiche a questo libro? «Sono sempre stato un non allineato — risponde Pahor —. Non ho mai riscosso simpatie, né da una parte né dall’altra».

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