Il lessico dimenticato di una critica ancora attuale

RILETTURE Un buon antidoto alla demonizzazione della scienza
La rottura con la tradizione marxista per svelare il fatto che le attività  nei laboratori di ricerca erano da inserire nelle relazioni sociali vigenti

RILETTURE Un buon antidoto alla demonizzazione della scienza
La rottura con la tradizione marxista per svelare il fatto che le attività  nei laboratori di ricerca erano da inserire nelle relazioni sociali vigenti
Rileggendo nel 2011 L’Ape e l’architetto la prima sensazione che si ha adesso è di spaesamento. Salta subito agli occhi la preoccupazione degli autori di dimostrare che le loro tesi sono completamente in linea con i testi originali marxiani e ne sono la naturale conseguenza, e che, se alcuni mostri sacri affermano tesi contrarie, sono questi ultimi a uscire dalla corretta strada. Questa preoccupazione si capiva benissimo nel 1976: per molto tempo la sinistra in Italia era stata dominata dal Pci e anche la critica «da sinistra» all’egemonia culturale del Pci era partita da premesse marxiste nel mettere in discussione le interpretazioni ortodosse. Anche se alla metà degli anni ’70 questo processo era ormai molto avanzato, c’era un ambito che la ventata critica ancora non aveva mai sfiorato, protetto da uno statuto «super partes» unanimemente riconosciuto: la scienza.
Adesso, che l’ortodossia marxista è andata via via scomparendo, insieme ai suoi difensori, non c’è più la necessità di giustificare le proprie posizioni con un richiamo all’origine del pensiero marxiano e alla tradizione marxista prestalinista. Per chi non ha vissuto quel periodo, può apparire incomprensibile concentrare tanto impegno a stabilire quale fosse l’originale visione di Marx sull’argomento.
Una delle tesi fondamenti dell’ortodossia era che «l’ideale conoscitivo delle scienze cognitive è sostanzialmente astorico e gode della proprietà per cui quando viene applicato alla natura serve unicamente al progresso della scienza». Al contrario, gli autori ritenevano che «la scienza diviene comprensibile solo se riferita alla totalità dell’operare degli uomini». Le tesi degli autori non erano politicamente neutre ed era cruciale che il loro discorso avesse tutte le giustificazioni ideologiche e l’apparato critico necessari per essere politicamente accettabile nella sinistra marxista.
La loro posizione era dirompente rispetto alla visione corrente della scienza ed era indispensabile dimostrarsi agguerriti e ineccepibili per reggere l’urto delle critiche feroci che si sarebbero sollevate, in quanto si metteva discussione uno dei più diffusi luoghi comuni del ‘900: la neutralità della scienza.
Mi ricordo che un saggio del libro mi aveva lasciato francamente perplesso quando apparso sul «Il Manifesto» (rivista), nel settembre del 1969: era Il satellite della Luna, di Marcello Cini, In quell’articolo l’autore analizzava il programma Apollo, sottolineando che le ricadute scientifiche dei programmi spaziali erano talmente minuscole rispetto alle cifre spese, da non poter essere assolutamente accettate come motivazioni reali; al contrario gli obiettivi politici e militari delle imprese spaziali erano vistosi e dominanti.
All’epoca avevo ventun anni e, come tanti della mia generazione, avevo letto tanti romanzi di fantascienza su «Urania»: lo sbarco dell’uomo sulla luna ci sembrava l’inizio di una nuova fase di esplorazione e colonizzazione in cui i terrestri cominciavano finalmente a muovere i primi passi nell’universo. Ci pareva che Cini non afferrasse che stavamo di fronte all’alba dell’era spaziale, e che si concentrasse su particolari contingenti senza coglierne la grande novità: il suo ci sembrava un discorso in fondo limitato. A distanza di quaranta anni è del tutto evidente che lui aveva ragione e noi avevamo torto. L’era spaziale, la colonizzazione della luna, non è mai cominciata e, a parte un gran numero di rocce lunari e qualche foto spettacolare, non ci è rimasto niente di quei viaggi: di fatto è come se sulla luna non ci fosse andato mai nessuno.
Ma all’epoca quasi tutti gli scienziati non vedevano, o non volevano vedere. La comunità scientifica era compattamente convinta dell’assoluta oggettività della scienza: certo c’erano state influenze della società sulla scienza, ma queste avevano solamente contribuito ad accelerare o a rallentare lo sviluppo scientifico, che di per sé evolve verso una costruzione finale oggettivamente (e non storicamente) determinata.
Gli autori quindi erano anche eretici nell’ambito ristretto della comunità scientifica e lo sviluppo delle loro idee sarebbe stato impossibile in un ambiente puramente scientifico. Possiamo comprendere la genesi delle loro posizioni solo considerando l’influenza della tradizione marxista. Infatti è stato Marx ad affermare che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza», inoltre l’inconsistenza della pretesa del capitalismo di porsi come fine della storia era un punto cruciale della critica marxista. A partire da queste premesse diventava quasi ovvia l’indicazione di recuperare la produzione scientifica nelle scienze naturali nell’ambito della totalità storica.
Per capire quale sia l’influsso della società nella scienza, sostenevano gli autori, è conveniente esaminare in dettaglio la storia: dalla loro analisi dettagliata risultava che la scienza era un’attività sociale come le altre e che le sue scelte venivano fatte anche per motivi irrazionali, extrascientifici, a volte apertamente socio-politici. La scienza non era più un mostro sacro, obiettivo, neutrale, le cui scelte erano perfettamente razionali e quindi comprensibili solo da una logica interna riservata agli specialisti. Oggi giorno desta meno scandalo la tesi che, pur essendo innegabile l’attuale successo della scienza, nel suo processo storico essa sia stata influenzata dalla società, dai suoi bisogni: un’altra storia, un’altra società avrebbero prodotto un’altra scienza, anch’essa capace di spiegare i fenomeni ritenuti essenziali da quell’altra società.
Ma allora la reazione di gran parte dell’establishment accademico fu furiosa: i più famosi e i più autorevoli commentatori italiani (Lucio Colletti, Giorgio Bocca) trovarono la tesi della non neutralità della scienza completamente intollerabile e cercarono di smontarla con una serie di banalità impressionanti. Gli autori furono accusati di essere luddisti, responsabili di nefaste tendenze antiscientifiche e derive irrazionali. Oggi, a tanti anni di distanza sembra vero tutto il contrario: ci sono forti tendenze antiscientifiche nella società attuale, il prestigio della Scienza e la fiducia in essa stanno diminuendo velocemente, le pratiche astrologiche, omeopatiche e antiscientifiche si diffondono largamente insieme a un vorace consumismo tecnologico e un cieco fideismo nella tecnologia; ma questa sfiducia di massa nella scienza è dovuta anche al fatto che la scienza insiste a presentarsi come superiore al gioco delle parti e in un certo senso sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, quando in realtà non lo è affatto. Proprio il rifiuto caparbio di non accettare la propria non-neutralità indebolisce il prestigio degli scienziati che sbandierano un’obiettività che non è autentica, davanti a un’opinione pubblica che in qualche modo ne avverte la parzialità di vedute e i limiti.
A distanza di tanti anni dalla sua uscita, dunque, L’ape e l’architetto risulta un libro di rottura, che ha aperto una strada, negli studi di filosofia e di storia della scienza, e a cui la storia ha dato per molti versi ragione, tanto che molte delle osservazioni dirompenti di allora sono entrate nel senso comune. E come tutti i libri che hanno fatto epoca, permette di ritrovare, anche nelle sue parti più datate, il sapore preciso di un periodo del passato e delle sue tensioni intellettuali. Da questo punto di vista è diventato un classico, che per essere inteso pienamente ha bisogno di essere contestualizzato e ricollocato nel suo tempo. E soprattutto L’Ape e l’Architetto comunica l’attualità e la tenuta di un metodo critico che sa essere insieme scientifico e marxiano, nel senso migliore di entrambi i termini: fedele al metodo scientifico per quanto è possibile nelle scienze umane e marxiano nell’attenzione alla base sociale ed economica di ogni agire umano, e nella consapevolezza che nessuna costruzione umana, scienza compresa, può essere sottratta alla storia.
È un metodo che ha tuttora molto da insegnare a chi, oggi come allora, lavora con gli strumenti dell’analisi critica a comprendere la propria epoca e a demolire i pregiudizi che di volta in volta ne ostacolano l’intelligenza.

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