I logorroici eroi di Bora Cosic

Proposto in italiano da Zandonai «Il libro dei mestieri», ambientato nella Belgrado degli anni Quaranta

Lo scrittore belgradese eleva l’affabulazione orale a principio costitutivo di una narrazione trascinante, insieme esilarante e tragica Ammassati in un caseggiato popolare, in trepida attesa dell’arrivo dell’Armata Rossa, i famigliari dell’autore non smettono mai di parlare

Proposto in italiano da Zandonai «Il libro dei mestieri», ambientato nella Belgrado degli anni Quaranta

Lo scrittore belgradese eleva l’affabulazione orale a principio costitutivo di una narrazione trascinante, insieme esilarante e tragica Ammassati in un caseggiato popolare, in trepida attesa dell’arrivo dell’Armata Rossa, i famigliari dell’autore non smettono mai di parlare

 Nel Diario di un senza patria, redatto nel 1993 dal suo esilio istriano, lo scrittore belgradese Bora Cosic teorizzava la possibilità di esimersi dall’obbligo sociale di commentare instancabilmente quanto stava accadendo nei teatri della guerra jugoslava, sovrapponendo alle cronache belliche di quei giorni gli echi del primo conflitto mondiale che risuonavano dalle pagine dell’ultimo volume della Recherche.

«Quello che noi viviamo qui è solo un pastiche di qualcosa già vissuto da altre persone, quasi un secolo fa. Io non ho voglia di ripetere il già avvenuto, e così mi occupo delle mie fantasticherie…». Seppur destinata a rinvenire fatalmente nel passato ciò che – purtroppo – si era reso ancora una volta attuale, la lettura del Tempo ritrovato diventava l’antidoto contro l’obnubilamento indotto dai nazionalismi, contro il volgare chiacchiericcio delle signore Verdurin-Bontemps di turno che, scriveva Cosic, dalla loro villeggiatura a Rovigno «intervenivano nelle conversazioni sulla guerra come se fossero uscite da West Point». Pur declinata in una tonalità minore, incline all’iperbole grottesca e al nonsense, la logica associativa del pastiche era già stata ampiamente sperimentata nel Libro dei mestieri, pubblicato nel 1966 e proposto ora per la prima volta in italiano da Zandonai nella traduzione di Maja Vranjes (pp. 129, euro 14).
E non importa che a essere giustapposte tra loro non fossero citazioni prelevate da opere fondamentali della letteratura mondiale, bensì commenti e parole in libertà pronunciate dalla strampalata famiglia dell’autore tra il 1940 e il 1944, ovvero quando Belgrado si era trasformata nel «cuore dell’Europa occupata». Identica era infatti la consapevolezza che ciascun percorso esistenziale, per quanto drammatico, si inscrive in una dimensione diacronica che ne diluisce per quanto possibile l’eccezionalità, ponendolo a confronto con altri secoli che – verosimilmente – sono stati anch’essi, come il Novecento, «pieni di guerre, rivoluzioni e altri eventi comuni a tutti gli esseri umani».
Dal rifiuto di una pretestuosa unicità dell’esperienza individuale – insidioso viatico per ostilità e rivalse senza fine – scaturisce anche la cifra stilistica di Cosic che si nutre di una moltiplicazione quasi fantasmagorica dei punti di vista e di una passione pressoché sconfinata per quei fraintendimenti gustosi che proiettano ombre sinistre sui territori dell’ovvietà. «Collegare tra di loro tanti esempi sconclusionati intorno allo stesso tema, che – a sua volta – con questi esempi non ha quasi nulla in comune», a questa regola aurea si attengono puntigliosamente tutti i componenti della famiglia dell’autore, ammassati in un caseggiato popolare belgradese in trepida attesa dell’arrivo dei partigiani e dell’Armata Rossa. Come nelle commedie dell’antichità, i logorroici personaggi di Cosic non tacciono mai, forse nel tentativo di esorcizzare con la parola l’incertezza di un futuro assoggettato alle manovre degli eserciti.
Non c’è da stupirsi dunque se grande è la confusione che regna nella mente del protagonista (ossia l’alter ego infantile dell’autore), mentre sulla base dei dati contraddittori forniti dai suoi parenti tenta di interpretare una realtà già di per sé alquanto caotica. Contraddistinte da una eguale pretesa di autorevolezza, le voci che si levano da questo coro sono innanzitutto quelle del padre, ubriacone inveterato, della madre, isterica e ipocondriaca, nonché di uno zio scapolo e tubercolotico che finge di riparare orologi pur di attirare nella sua stanza le vicine più provocanti. Non mancano neppure un nonno burbero, incline a esprimersi per aforismi, e due zie zitelle, infatuate allo stesso tempo dei divi di Hollywood e dei partigiani di Tito.
Fanfaronate iperboliche, bugie a fin di bene, imbarazzati sotterfugi e battibecchi sempre più polemici accompagnano in sottofondo la vita quotidiana sotto l’occupazione nazista, fino alla liberazione definitiva nell’ottobre 1944, salutata dai personaggi di Cosic con pirotecnico entusiasmo, «deliri e discorsi senza senso e una magnifica ebbrezza scatenata dalla nuova vita». Inevitabile quindi che l’io narrante abbia una visione piuttosto distorta della realtà («Io allora pensavo che i russi fossero un mestiere, uno dei più importanti») e che le sue esclamazioni ingenue e imprevedibili seminino sconcerto tra gli adulti impegnati più che altro a barcamenarsi tra i voltafaccia repentini della Storia.
A differenza dei suoi famigliari, il protagonista si sforza di comprendere il mondo intorno a sé, ricomponendone i frammenti in base alla categoria antiquata di «mestiere», una eredità d’anteguerra che si rivelerà inadeguata a descrivere un universo in cui spuntano improvvisamente nuove professioni come quelle dei barabba, dei matti o dei maghi che provano a ricavare il burro dal carbon fossile. Ampiamente metaforici, i mestieri qui trattati restituiscono eccellentemente l’atmosfera della «armonizzazione» e «riverniciatura» intraprese dal nuovo potere comunista (nei capitoli dedicati rispettivamente ad accordatori di pianoforti e imbianchini), evidenziandone soprattutto gli aspetti più grotteschi. Come ad esempio nelle pagine in cui un cappotto rosso fiammante, cucito da due sarti ciechi (gli unici sopravvissuti alla guerra), emanciperà il protagonista dal marasma verbale della sua famiglia: «In quel cappotto cominciai a parlare in maniera sintetica e incisiva, al punto che sembrava che il cappotto parlasse per conto suo».
Sullo sfondo di una tradizione letteraria propensa a raffigurare lo scontro tra individuo e collettività per lo più in toni epico-drammatici, Cosic (ora in esilio volontario a Berlino) eleva l’affabulazione orale a principio costitutivo della sua narrazione trascinante, punteggiata di momenti ora esilaranti, ora tragici. Uno stile che, ulteriormente perfezionato nel successivo Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale (1969, tradotto da Nicole Janigro per e/o nel 1996), valse a attirargli nella Jugoslavia degli anni Sessanta il plauso incondizionato dei lettori e gli strali delle autorità, infastidite da quella maniera a dir poco irriverente di guardare alla costruzione del comunismo. Anche se, in realtà, lo scrittore non sembra aver mai nutrito eccessive illusioni sul fatto che la palingenesi sociale potesse avvenire per vie diverse da quelle di rischiosi tentativi empirici: «Per cambiare la vita, i pensieri, l’umanità, un modo normale non c’era, questo ci fu chiaro fin da subito».

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