METAFORE DELL’OGGI
«Solo ragionando in termini di flussi e movimenti, ci liberiamo dal circolo vizioso delle rivendicazioni genealogiche». Un dialogo con lo scrittore e storico Elias Sanbar, ospite in questi giorni del festival di letteratura e traduzione «Babel»
METAFORE DELL’OGGI
«Solo ragionando in termini di flussi e movimenti, ci liberiamo dal circolo vizioso delle rivendicazioni genealogiche». Un dialogo con lo scrittore e storico Elias Sanbar, ospite in questi giorni del festival di letteratura e traduzione «Babel»
Lo sradicamento, l’esilio, la separazione, la perdita: è attorno a questi quattro movimenti che, osservava Mahmoud Darwish, si struttura quella che solo in apparenza è una paradossale «presenza dell’assente». Sradicato dalla sua terra, «invisibile» fino al 1949, ogni giorno costretto a ricordare il passato, a immaginarsi un futuro, il «palestinese» ha imparato a proprie spese, come scrive Elias Sanbar, che chi è cacciato da un luogo è contemporaneamente congedato dal tempo.
Nato a Haifa nel 1947, Sanbar è storico, scrittore, traduttore. A lui si devono, oltre a un incessante lavoro di redazione per la «Revue d’études palestiniennes», alcune delle riflessioni più illuminanti, sull’identità palestinese e il suo incessante, inevitabile «divenire». Lo abbiamo incontrato a Bellinzona, in occasione di Babel, il Festival di letteratura e traduzione diretto da Vanni Bianconi.
L’identità e l’assenza sono concetti forti, di cui lei si è a più riprese servito, tanto nel recente Dictionnaire amoureux de la Palestine (Plon, 2010), quanto in un testo precedente che ha suscitato molta eco e inevitabili dibattiti, Il palestinese. Figure di un’identità: le origini e il divenire (Jaca Book, 2005 traduzione italiana di Anna Maria Cagiano Calvezzi). Non a caso questo lavoro porta in esergo una dedica «A Gilles Deleuze, in segno di perenne amicizia» e ha nell’originale un sottotitolo – Identité des origines, identité de devenir – molto deleuziano che forse può portarci meglio di qualunque domanda nel cuore stesso di quella ferita sempre aperta che siamo propensi a liquidare sbrigativamente come «questione palestinese», quasi non riguardasse la «nostra», di identità.
La dedica che apre Figures du Palestinien raccoglie e condensa una lunga storia di frequentazioni, condivisione e lavoro. Anche tralasciando le questioni personali, ciò di cui si tratta, nel libro, è fondamentalmente una questione di amicizia. La dedica va all’amico, Gilles Deleuze, ma è anche un omaggio operativo agli strumenti di lavoro e alla «cassetta degli attrezzi» che questo amico ci ha messo tra le mani per meglio accostarci alla realtà e venire ai ferri corti con le cose. Non dimentichiamo che, proprio in apertura dell’ultimo lavoro firmato con Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, «amico» e «amicizia» sono presentati come figure – «categorie viventi» e «personaggi concettuali» li chiama Deleuze – che segnano le condizioni di possibilità stesse del pensiero. Il filosofo, prosegue Deleuze, è un amico, perché è «amico del concetto». La filosofia è dunque fondamentalmente questione di amicizia e di concetti, e questa amicizia ci aiuta a scavare nelle figure dell’identità, nei loro margini, nelle loro pieghe e, soprattutto, nel loro divenire. Nell’essere senza luogo e nell’essere senza tempo che constraddistingue la figura di quegli invisibili diventati, a un certo punto della storia, degli «assenti»: i palestinesi.
Ma tornando a Deleuze, devo dire che la sua vicinanza ha segnato profondamente un’idea che, passo dopo passo, ha trovato la sua forma in quel libro. Ho discusso a lungo con lui della questione e i lavori preparatori – i primi appunti, i primi schemi – del mio Il palestinese risentono molto di queste discussioni. D’altronde, prossimità personale a parte, non posso non ricordare almeno tre idee-forza di Deleuze che percorrono il lavoro. La prima è l’idea dell’essere attraversati da un’energia vitale, della permanenza e della necessità di movimento, ossia da una circolazione costante di forze. La seconda, sviluppata in particolare nel dodicesimo capitolo di Mille plateaux – capitolo chiave, che delinea un vero e proprio trattato di «nomadismo»- , è l’idea che siamo tutti abitati da molteplicità e che non possediamo costituzioni monolitiche. Siamo figure in divenire, siamo identità molteplici. La terza è quella delle linee di fuga, che io declino come presa di coscienza del fatto che non esiste un inizio della Storia con la maiuscola, non esiste un caos prima dell’ordine e della genesi. Se questo è vero e se l’inizio della storia non è mai avvenuto e le nostre identità non possiedono data di nascita certificabile e certa, significa che esistono solo flussi identitari che possiamo leggere unicamente se li cogliamo nella loro mobilità. Se li cogliamo in figure. E l’insieme di queste figure forma un divenire-identità.
Anche se, dinanzi all’ingenuità di troppe buone intenzioni, qualche rischio è bene che la ragione lo corra, non crede che la sua lettura rischi di essere fortemente «deterritorializzata» e decontestualizzata?
Non credo. Sono convinto che questa sia una lettura forte perché va realmente e direttamente al nocciolo della questione. Le figure rendono visibile il flusso, rendono idenfiticabili, non intercambiabili, le cose. Il nocciolo è questa idea di continuo, perenne movimento. Senza riconoscere il movimento dell’identità, si cade in un circolo vizioso legato alla semplice recriminazione dell’anteriorità della presenza temporale in un dato spazio – nella fattispecie in Palestina. Pensiamo a tal proposito al ruolo giocato dalle genealogie nella legittimazione politica della repressione e nell’accettazione ideologica dell’esistente. Queste genealogie, proiettate talvolta su un piano di millenni, sono alla base dell’ingiustizia perché è in virtù di una rivendicazione genealogica che la pratica dell’occupante e il suo dispotismo vengono abilmente giustificati, creando purtroppo cliché identitari statici anche da parte palestinese, in una corsa che è realmente un circolo vizioso.
Torniamo dunque ai concetti di divenire e di territorio. Se il divenire possiamo leggerlo come «oggetto» sempre mancato del desiderio (l’impossibile ritorno a casa), il territorio è qualcosa a cui non ci si lega in senso unicamente passivo e staticamente identitario. Siamo quindi tornati a Gilles Deleuze che contrapponeva la nouvelle terre, sempre da costruire, sempre in divenire, mai oggetto di «occupazione» (così come il desiderio non va «saturato») alla «terra promessa» che, al contrario, obbedisce a una logica di riterritorializzazione di tipo arcaico e di occupazione di matrice autoritaria…
La circolazione è fondamentale, il divenire è fondamentale. Per tutti, non solo per i palestinesi. Io ho applicato questo metodo di studio e di riflessione al caso palestinese, isolando in base a criteri oggettivi e soggettivi alcune figure in una catena che definisco identità di divenire in contrapposizione all’identità logica o di identificazione. Quest’ultima si chiarisce, infatti, nel suo rapporto fisso non col divenire, ma con lo Stato-nazione. Se c’è una costante, nell’identità dello Stato, questa costante è data proprio da qualcosa che si ritiene continuo, inalterato e forse persino intalterabile. Tutto, in questa identità logica, è retto da una sorta di principio di stabilità. L’identità in divenire, al contrario, è retta da un principio di mobilità e di movimento. In questo movimento vi sono figure, costantemente diverse, ma costantemente identificabili. È in questa possibilità di identificazione, e non di «statuizione», che si realizza la visibilità di un popolo o di un individuo. Questa identità non si realizza fra due Stati, passa sotto la pelle degli Stati, eppure la sua continuità è visibile, ma in figure, non in linee genealogiche. Questo vale anche per l’identità palestinese.
Potremmo però dire, ricalcando il titolo di una raccolta di interviste da lei realizzate con Mahmud Darwish, che la Palestina in questo è una metafora…
Il titolo di quel libro pubblicato nel 1997 da Sindbad/Actes Sud La Palestine comme métaphore (Oltre l’ultimo cielo, Epoché 2007), venne a me come omaggio a Leonardo Sciascia che parlava della Sicilia come metafora. Però la Palestina è veramente una metafora, e Mahmud Darwish lo testimonia. Testimonia, nella sua grandezza, della staticità delle gabbie identitarie attraverso le quali siamo soliti leggere tutto. Anche la grande poesia. In Francia siamo riusciti a sottrarre la poesia di Darwish a una lettura semplicistica e, alla lunga, sterile sulla sua «identità». Darwish non è un poeta palestinese, è un poeta di Palestina. Darwish è poeta e, se a qualcuno interessa sapera da dove venga, beh, allora lui vi risponderà «vengo dalla Palestina». Questo è tutto. Ma in questo tutto, come già abbiamo accennato a proposito dell’identità, scorrono lunghe derive. La poesia non è determinata dal passaporto del poeta, la poesia è universale. La poesia è divenire. Se poi dobbiamo discutere della terra di Darwish, allora certamente la risposta è: la Palestina. La Palestina col suo paesaggio, la sua flora, la sua gente, la sua aria, i suoi umori. La Palestina è una certa atmosfera, un certo cielo, una certa aria che respiriamo. Ma non solo quello. E per questa ragione, Darwish è stato la voce della Palestina, ma molti l’hanno considerato come si considera un qualsiasi autore di libelli politici o di slogan. Per fortuna ora tutto ciò è finito, almeno in Francia. Tuttavia è stato molto difficile, per Mahmud, perché non si è mai sottratto alla causa. Ma la causa, o meglio un certo modo di leggere la causa palestinese, lo ha per lungo tempo imprigionato. In un’intervista che facemmo assieme, per il canale Arté, ad un certo punto il giornalista gli chiese: «Bene, un giorno ci sarà la libertà, l’indipendenza, avrete il vostro Stato. Ma lei, quando si sentirà davvero libero?». E Darwish rispose: «Quando ci saremo liberati della Palestina».
Ancora una immagine forte…
Un’immagine che spiega, più di tante parole, che siamo prigionieri del conflitto. Non siamo solo vittime dell’occupazione israeliana. Alla fine dei suoi giorni, Darwish ripeteva spesso di essere, fondamentalmente, un poeta troiano. Omero, mi diceva spesso, ha scritto il poema dei vincitori, «ma sono convinto che gli sconfitti hanno scritto anche loro un poema, che è scomparso. Ecco il mio compito, scrivere quell’epopea». È a partire da questa intuizione che Darwish ha elaborato una differenza – anche lui, amico dei concetti – tra la sconfitta (perte) e la disfatta (defaite). La disfatta è sterile, la sconfitta ci costringe a oltrepassarci, ad andare oltre. Noi palestinesi siamo nella sconfitta, non nella disfatta. Eccolo, il divenire.
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