Dieci anni dopo il G8 di Genova l’ombra lunga del trauma

Per Liguori uno studio condotto da Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto.
Quali conseguenze produce nella vittima il «negazionismo della sofferenza»? Quali effetti produce nella collettività  la pretesa di «voltare pagina»?

Per Liguori uno studio condotto da Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto.
Quali conseguenze produce nella vittima il «negazionismo della sofferenza»? Quali effetti produce nella collettività  la pretesa di «voltare pagina»?

 Nel decennale delle giornate di Genova, culminate nell’assassinio di Carlo Giuliani e nella mattanza della scuola Diaz e della caserma Nino Bixio a Bolzaneto (tra le 250 e le 280 persone arrestate, oltre 600 feriti di cui tre in condizioni molto gravi e uno in coma), vede la luce un libro Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico. Dopo il G8 di Genova: il lavoro della memoria e la ricostruzione di relazioni sociali di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto (prefazione di Nando dalla Chiesa, Liguori Editore, pp. 191, euro 19) che consegna nuovi materiali di studio e importanti strumenti di analisi. Il tema è l’ombra lunga del trauma, che si proietta nel tempo trasformando, talvolta irreversibilmente, la vita – i pensieri, la sensibilità, l’identità – di chi lo ha vissuto. Ogni trauma è un frammento del passato che non passa, che tende a persistere, informando di sé il presente e «conficcandosi» nel futuro. Genova, in particolare, ha prodotto un profondo trauma psicopolitico, non soltanto in chi prese parte alle manifestazioni contro il G8 e subì le cariche e le torture della polizia, ma anche nella componente civile della società, non indifferente al diritto e alle sorti della democrazia italiana.

Il lavoro, svolto sul campo da un’équipe di psicologi sociali, getta luce sugli effetti durevoli di quella devastante esperienza. Dando la parola ai testimoni degli eventi (ai manifestanti, non agli agenti, salvo rarissime eccezioni chiusi tuttora in un significativo silenzio), gli autori indagano le ferite aperte dalla brutale violenza fisica e morale compiuta dai poliziotti e dalla sconvolgente rottura delle regole poste a presidio dell’«ordine democratico». Ferite lontane dal rimarginarsi a dieci anni di distanza, a dimostrazione del fatto che il tempo, di per sé, non è una medicina, che il «pensiero della passività» non è una risorsa per il superamento del dolore, che la rimozione e la tabuizzazione della violenza non servono alla elaborazione individuale e collettiva di un lutto.
Leggere questo libro, ascoltare quelle voci dolenti, è rivivere un incubo. Torna insistente il pensiero che tutti attraversò in quei giorni. L’Italia come l’Argentina di Videla, come il Cile di Pinochet. O come l’Italia di via Tasso, delle torture e delle deportazioni. E di piazza Fontana, dello Stato stragista. «Guardando sotto continuiamo a vedere quelli che sembrano “squadroni della morte”» racconta un testimone. «La battaglia di Genova è finita. Forse anche la democrazia nel nostro Paese» commenta un altro. Non si tratta soltanto del ricordo della brutalità e del nonsenso. Emerge soprattutto lo stupore per un inconcepibile rovesciamento delle parti.
La prima questione che le testimonianze pongono è precisamente questa: che cosa rivela la mutazione genetica (sempre possibile) di apparati di potere pensati come strutture di protezione e rivelatisi alla prova dei fatti vettori di distruzione e di terrore? L’esperienza del terrorismo di Stato causa un radicale spaesamento e il crollo di aspettative cruciali. Comporta la scoperta del cuore di tenebra immanente alla relazione di potere. O, se si preferisce, la percezione della pervasività della guerra sotto la superficie fragile e illusoria della relazione civile. Come racconta un altro testimone, a Genova tutto un mondo si capovolse, lasciando irrompere la natura ferina (disumana e deumanizzante) della sovranità.
Disincanto, quindi, ieri. Ma anche silenzio, fuga, reticenza e omertà oggi. Faticano a ricordare e a parlare le vittime della violenza, difendendosi col diniego dal dolore del ricordo. Rifiutano di parlare gli autori (a vario titolo) delle violenze, difendendo il proprio ruolo con l’omertà e il disimpegno morale. Qui si pone l’altra questione: quali conseguenze provoca nella vittima il «negazionismo della sofferenza» e, soprattutto, quali effetti produce nella collettività la mancata assunzione di responsabilità da parte dei colpevoli, la pretesa di «voltare pagina» imponendo un impossibile o distruttivo black out della memoria?
La memoria collettiva è un’attività in virtù della quale il passato si trasforma, opera nel presente, costruisce un futuro condiviso: dà vita a una «comunità di memoria» figlia del mutamento sociale prodotto dal lavoro del ricordo. Quando una società si ritrae, risparmiando a se stessa questa fatica, la violenza compiuta e subita resta come sospesa, cristallizzata in un presente senza tempo. E perdura. Chi allora subì torture, percosse, insulti e umiliazioni inaudite dai «tutori dell’ordine» reca ancora oggi il peso di un «ostracismo sociale».
Le testimonianze di chi visse le violenze cilene di Genova fotografano questa impasse, che impedisce il superamento del trauma, rinnova il dolore, incide linee di frattura nel corpo della società. Per questo Carlo Giuliani non è, ancora oggi, «un morto di tutti». Per questo ancora oggi migliaia di cittadini di questo paese tremano al cospetto di divise e di anfibi. Per questo consigliamo la lettura di questo libro a tutti, e soprattutto a quei rappresentanti del popolo sovrano – deputati del centrodestra e dei partiti di Mastella e Di Pietro – che nell’ottobre del 2007, Prodi governante, impedirono l’istituzione di una Commissione parlamentare sui fatti di Genova. Scegliere l’omertà è possibile, pretendere che il silenzio riconcili è un’illusione, un errore e una colpa.

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