Di cosa parliamo quando parliamo di avventura in italiano e in somalo

ANTEPRIMA Stralci di un intervento al Festival della letteratura di viaggio, da domani a Roma

ANTEPRIMA Stralci di un intervento al Festival della letteratura di viaggio, da domani a Roma

 Per quasi due anni ho seguito un progetto sulla memoria che coinvolgeva un gruppo di richiedenti asilo somali. Sono tutti molto giovani, la loro età coincide con quella della guerra civile, e sono di quelli che hanno deciso di arrivare lontano. Dove, nessuno l’ha ben chiaro all’inizio, l’unica cosa certa è la necessità della propria decisione.

Un giorno, uno degli studenti, mi ha detto che durante una lezione, dopo aver a lungo discusso su come tradurre una parola, avevano riflettuto su quanti fossero i vocaboli italiani per cui non si riusciva a trovare un corrispondente in somalo. Allo stesso modo, esistevano tante parole somale impossibili da tradurre in italiano. Così abbiamo pensato di iniziare un laboratorio sulle parole, il laboratorio delle nostre parole intraducibili. Lo stimolo nasceva da una parola e dall’impossibilità di trovare un vocabolo corrispondente. Trovavamo termini che la sfioravano, che ci conducevano in dimensioni che non prevedevamo. Allora ciò che si andava costruendo era una specie di albero, un’associazione di idee partita da una parola intraducibile. La prima parola che non si riusciva a tradurre era Avventura.
Su un dizionario della lingua italiana è scritto: avventura: vicenda singolare e straordinaria, caso inaspettato. Impresa rischiosa ma attraente per ciò che vi si prospetta di ignoto e vi si vive di fuori dal comune.
Sembra che non ci sia un termine corrispondente in somalo. Sul dizionario italiano-somalo troviamo sursuur. Sursuur baan galay significa ho corso un pericolo. Il pericolo è quindi un elemento connaturato all’avventura?
Continuiamo cercando. C’è chi suggerisce dalmar, attraversare i paesi o meglio badmar, attraversare il mare.
Figura tipica dell’avventuriero somalo era il seaman. Quella dei seaman è la più antica comunità dei somali nel Regno Unito. Nel golfo di Aden, molti uomini si arruolavano come marinai nelle navi mercantili o nelle navi da guerra inglesi. Qualcuno tornava. Qualcuno non tornava più.
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Recentemente in Italia è uscito Aukuì (Eks&Tra 2008), romanzo d’esordio di Fatima Ahmed, racconto in prima persona della figlia di un seaman somalo, vissuto in Cambogia trent’anni, sposato con una giovane indo-vietnamita e costretto a tornare in Somalia negli anni 70, in fuga dalla guerra civile cambogiana. Fatima è una donna dai grandi occhi e dalla voce soave e la sua è una vicenda unica ed esemplare, una vera avventura. Dopo aver perso la famiglia negli scontri tra somali e coloniali inglesi, il padre, ancora bambino, era stato trasferito a Aden con centinaia di orfani. Qui si era imbarcato e aveva girato il mondo a bordo delle navi mercantili con il timbro di seaman sul passaporto britannico.
Dopo anni di navigazione, aveva deciso di fermarsi in Vietnam e di cambiare mestiere, restaurando cappelli di feltro usati, provenienti dalla Francia, e vendendoli al mercato di Phnon Penh. Altissimo ed elegantemente vestito, nel suo completo bianco anni Quaranta, aveva finito per innamorarsi di una giovane del reparto stoffe indiane che veniva dal Vietnam una volta a settimana per aiutare la sorella. Caso volle che le loro bancarelle fossero una di fronte all’altra, i due si innamorarono, si sposarono ed ebbero undici figli.
A proposito dei seaman, uno degli studenti della scuola, in Somalia faceva il pescatore, nonostante la madre lo volesse tenere lontano dal mare e ci dice che i seaman non erano veri e propri avventurieri come lo sono i pescatori, perché a bordo delle grosse navi non c’è bisogno di conoscere il mare e i rischi che si corrono navigando. Ci riporta quindi all’idea di avventura come pericolo.
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«Allora» mi racconta una giovane della scuola «mentre ero nel mezzo di quella frantumazione, decisi di entrare nel viaggio».
Il viaggio per raggiungere il mare è lungo e i piedi le dolgono perché non ha scarpe adatte e le sue scarpe si squarciano e le lacerano le caviglie. Non ha niente con cui sostituirle, così si fascia i piedi di stoffa e di cortecce, li fascia stretti e attraversa terreni umidi, terreni secchi, attraversa tutto. La fasciatura si bagna, allora la ragazza libera per un poco i piedi, strizza gli stracci, infila i piedi lividi in due sacchetti di plastica, poi li riempie di foglie secche e di stoffa. Arriva a un incrocio e ha questi piedi, e c’è una donna ferma a quell’incrocio, una donna che è entrata nel viaggio come lei. Allora questa donna la vede con i piedi gonfi quasi tumefatti avvolti nella plastica e nella stoffa, plastica e stoffa che non si staccano più dalla sua pelle. E questa donna apre la sua sacca e tira fuori un paio di scarpe per lei, un paio di scarpe dalla sua sacca. Sono passati molti anni da quando è entrata nel viaggio, da quando ha deciso di fuggire da quella frantumazione. Eppure, a volte, le capita ancora di sentirsi qualcosa conficcato nella pianta del piede, dentro, proprio dentro al piede. E vorrebbe afferrare una lama, o una pinza, qualcosa di tagliente per estrarre quelle spine e quei vetri che sente conficcati nei piedi.
La giovane donna usa la parola burbur, la frantumazione, per nominare la ragione che la spinge a decidere di entrare nel viaggio. Dice burbur, non dice guerra civile, dagalka sokeeye in somalo.
Nel romanzo Links, Nuruddin Farah si sofferma sul significato di questa espressione:
«”Sai come si dice in somalo guerra civile?”
“Dagaalka sokeeye” (…)
Dentro di sé, Jeebleh non riusciva a decidere come tradurre quella espressione somala: alla fine preferì il concetto di “uccidere un intimo” a quello di “fare la guerra a un intimo”. Forse la seconda alternativa esprimeva meglio quello che stava succedendo in Somalia». (Nuruddin Farah, Legami, Frassinelli 2005, p. 154]
C’è intimità nella violenza e fare la guerra a un intimo è proprio l’implosione di quello spazio entro il quale ci sentiamo al sicuro.

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