Da Togliatti al Pd, chi ha paura dei “magnacucchi”?

A Bologna un convegno ricorda Cucchi e Magnani, i due eretici del Pci cacciati 60 anni fa come “pidocchi”

A Bologna un convegno ricorda Cucchi e Magnani, i due eretici del Pci cacciati 60 anni fa come “pidocchi”

IN CASO DI INVASIONE. Sostenevano che i comunisti italiani si sarebbero dovuti battere contro l’Armata Rossa

Quando due militanti, tra l’altro veterani partigiani, osarono criticarlo, Togliatti rispose: «Due pidocchi possono annodarsi anche nella criniera del più nobile destriero». Quando dei militanti osano criticarli, i capi del Pd rispondono spesso, oggi, «non accettiamo lezioni da nessuno» (Bersani l’ha ripetuto questa settimana a Di Pietro). Nessuno viene più cacciato o quasi, neanche i radicali che non votano la sfiducia al ministro accusato di concorso in associazione mafiosa; ma non potrebbe esserci frase più antipolitica, da parte di un gruppo di leader politici, che «non accettiamo lezioni da nessuno».
Il paragone ovviamente è un gioco, Palmiro Togliatti, che diede dei «pidocchi» a Aldo Cucchi e Valdo Magnani per poi espellerli dal Pci, non è Bersani, e Pietro Secchia non c’è più. Amen. Tutto è cambiato, tra il vecchio Partito comunista togliattiano e stalinista e il Partito democratico, certo non stalinista e men che meno monolitico; tranne forse qualcosa. Le storie di chi rivolge critiche a volte paiono cicliche, le riabilitazioni postume, gli eretici sempre e comunque pronti per i roghi, che oggi assumono la veste soft della marginalizzazione. Ecco perché illumina leggere con chiavi attuali un incontro che si tiene oggi e domani a Bologna, nella Biblioteca dell’Archiginnasio, per ricordare appunto le figure di Cucchi e Magnani, «i magnacucchi», come spregiativamente li si prese a chiamare nel Pci, dopo la cacciata avvenuta nel ‘51, sessant’anni fa esatti.
I nomi, probabilmente, diranno poco a un ventenne, ma sono tra quelli più simbolici nella storia del comunismo italiano. Cos’avevano fatto di così grave Cucchi e Magnani per meritarsi la taccia di «pidocchi»? Avevano osato asserire che, in caso di invasione dell’Armata Rossa, i comunisti italiani si sarebbero dovuti battere per l’indipendenza. Furono espulsi, fondarono, con altri eretici di sinistra – tra cui Giuliano Pischel, Lucio Libertini, Vera Lombardi -, il settimanale Risorgimento socialista , e quindi un partito, il Movimento Lavoratori Italiani, che poi diventerà l’Unione Socialista Indipendente. Non ebbe mai grande fortuna l’Usi, un po’ come il Partito d’Azione, troppo avanguardistica e colta l’idea di una sinistra laica e non comunista nell’Italia di Peppone e don Camillo. Ma i «magnacucchi» avevano aperto un’epoca, profetizzando cose che sarebbero poi tragicamente avvenute; vedi la repressione sovietica del ‘56 a Budapest. Per questo li si doveva seppellire col sarcasmo.
È allora interessante che il convegno, oltre che dal figlio di Cucchi, il generale Giuseppe, e da uno degli ultimi reduci della storia del Mli, Learco Andalò, sia stato promosso da Luigi Pedrazzi, uno dei fondatori del Mulino bolognese, tra gli ultimi monumenti di una sinistra italiana non comunista, diciamo prodiana. Con due chicche che Andalò racconta così: «Le confesserò, i dirigenti del Pd che avvicinavo con l’idea di celebrare i magnacucchi non mi sono sembrati entusiasti, c’è ancora tanta diffidenza». E poi: «Mia moglie è sovrintendente ai beni librari dell’Emilia, conosce molto bene Linda Giuva, la moglie di D’Alema, che è professoressa di archivistica. L’ho contattata, e ha mostrato disponibilità straordinaria per studiare il fenomeno, e partecipare». Ironia della storia, i magnacucchi vengono definitivamente riabilitati in un incontro cui ha collaborato la moglie dell’ultimo presunto erede politico del Migliore.
La sinistra italiana è così, incroci, ritorni, famiglie, revisioni che giungono sempre tardi, a babbo morto. Lo stesso Togliatti, per dire, fu messo in croce per le critiche di Magnani, che era tra l’altro cugino di Nilde Iotti, e era stato quello che la introdusse nel partito. Oggi esistono ancora dei magnacucchi potenziali nel Pd? Giuseppe Civati, consigliere lombardo, viene spesso citato, come anche Matteo Renzi, tra le voci che cercano di rompere il gioco dei vecchi compagni di scuola. Ora le strade tra i due sono diverse, ma Civati accetta il gioco del paragone ardito col ‘51. Naturalmente è un altro mondo, dice; con sottili affinità. «Di là c’era un Pci monolitico, qui il problema è semmai di un Pd dove si registra un pluralismo confusionario», ragiona. «Quello era un partito-chiesa, per il gruppo dirigente dell’attuale Pd userei piuttosto l’immagine del fortino arroccato, del quadrilatero di Radetzky, incapace di ascoltare le critiche provenienti dall’interno, e dal basso». Per esempio dal risveglio della scorsa primavera, già tradita nel mesto autunno del nostro scontento democratico.

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