Criminale chi non produce

Dopo i disordini di Londra dei giorni scorsi, una riflessione sugli stili di vita improduttivi come segno di assenteismo dal mercato, che a sua volta segnala indolenza, ozio obbligato, non volontario. Fa paura che le persone obbligate all’ozio possano effettuare delle scelte imprevedibili

Dopo i disordini di Londra dei giorni scorsi, una riflessione sugli stili di vita improduttivi come segno di assenteismo dal mercato, che a sua volta segnala indolenza, ozio obbligato, non volontario. Fa paura che le persone obbligate all’ozio possano effettuare delle scelte imprevedibili

Che differenza c’è tra lo shopping che inaugura le svendite post-natalizie e quello dei giorni scorsi che infrange le vetrine delle città inglesi? Sono entrambi caotici, violenti, minacciosi e disordinati, ma solo il secondo viene ritenuto manifestazione di ‘disordine sociale’, concetto chiave per comprendere quanto accaduto nelle scorse settimane. La vasta letteratura dedicata a questo concetto ci obbliga a ripensare a categorie come paura, minaccia, isolamento, criminalità, categorie intrecciate alle nostre percezioni dell’ambiente urbano.
‘Disordine sociale’ rimanda ai comportamenti adottati da persone sconosciute considerate potenzialmente minacciose. In concreto, un assemblamento di ragazzi e ragazze all’angolo di una strada; gruppi che schiamazzano; scene di ubriachezza notturna; forme di aggressione verbale, ma anche richieste di soldi da parte di senza casa, o offerte di prestazioni sessuali in cambio di danaro. Si tratta, insomma, di condotte ritenute pre-criminali. I graffiti sui muri di alcune aree urbane sarebbero un altro segno di ‘disordine’ e di ‘comportanto antisociale’. I due concetti, tuttavia, vanno decostruiti, in quanto contestabili, vaghi, privi di valore obiettivo e di carattere scientifico. La nozione di disordine, ad esempio, riflette la posizione nella quale ognuno di noi colloca il confine tra comportamento diverso, ma tollerabile, e comportamento criminale. Secondo certe percezioni, gli assemblamenti di giovani, di per sé, posseggono un elemento di intimidazione, lasciano intravedere un comportamento ostile o magari soltanto sgradevole. A volte ci sono dei segnali soltanto di natura estetica, di stile, che da certuni vengono interpretati come minacciosi. Quanto ai graffiti, vi è chi li trova più sgradevoli dei cartelloni pubblicitari: come spiegarlo? Pensiamo ai magnifici graffiti di Bansky: una bambina felice che abbraccia non una bambola, ma una bomba; una guardia della regina, con giubba rossa e caratteristico berretto a tuba, che urina sul muro; due poliziotti maschi che si tolgono il casco per baciarsi appassionatamente; e un ragazzo, in posa di lancio, evidentemente in una manifestazione politica, che non impugna un sampietrino o una molotov, ma un mazzo di fiori.
Negli spazi pubblici, insomma, la paura o la percezione del disordine trascendono la natura criminale della minaccia che viene percepita. Ricordiamo di trovarci in una zona grigia del comportamento, in un luogo della socialità nel quale la nostra percezione soggettiva gioca un ruolo cruciale. Alcuni gruppi, allora, vengono interpretati come minacciosi o pericolosi non perché potenzialmente criminali, ma in quanto apparentemente inattivi, indolenti, assenti dal mercato; in quanto, in altre parole, non posseggono i tratti del consumatore. Fare compere, acquistare, fare lo shopping, hanno ormai raggiunto un valore non soltanto politico, ma metafisico. Attraverso le compere cerchiamo di stabilire una sorta di mappa sociale, forse inconsapevolmente disegniamo una gerarchia. Tra un po’ non ci rimarrà altro da fare che lo shopping, come massima espressione di libertà individuale. Lo spazio del consumo, peraltro, deve essere protetto, e le cancellate devono essere visibili, mentre gli estranei vanno sfrattati. Tra gli sfrattati vi sono anche coloro che costituiscono una semplice minaccia estetica, tutte quelle minoranze che senza volerlo comunicano un senso di pericolo alla maggioranza che consuma, e che deve consumare senza essere disturbata. Non è un caso che la rigenerazione dei centri urbani nel Regno Unito consiste nella creazione di spazi per il consumo, dove le catene dei dettaglianti non tollerano la presenza degli indolenti e dei poveri. Non è un caso neppure che, parallelamente alla rigenerazione dei centri urbani, è stato inventato il delitto di comportamento anti-sociale, punito con Asbo (Anti Social Behaviour Order), secondo cui la persona colpita viene bandita da certi luoghi e per certe ore del giorno ha l’obbligo di restarsene a casa.
Secondo Walter Benjamin, le economie di mercato si imperniano sul culto dell’utile; è inevitabile allora che l’inutilità venga associata con il disordine. I mercati sono in costante celebrazione di se stessi e coinvolgono i consumatori in quanto adoratori, fedeli di un credo che ha qualcosa di religioso. Persino gli orari di apertura dei negozi chiamano alla mente i calendari liturgici, in un culto che è concreto e imperativo come un vero e proprio culto divino. Negli scritti di Benjamin sull’urbano troviamo ancora qualcosa che descrive i nostri tempi. Nelle arcate, le gallerie, o i passages colmi di merce, la presenza delle ‘donne pubbliche’ (come le definisce) distrae i consumatori. E i commercianti ingaggiano una battaglia per fare pulizia: via quei corpi femminili, i compratori devono concentrarsi sulle vetrine e sui cartelloni pubblicitari.
Gli stili di vita improduttivi sono segno di assenteismo dal mercato, che a sua volta segnala indolenza, ozio obbligato, non volontario, il primo essendo mortale e il secondo vitale. Quello che fa paura è che le persone alle quali l’ozio viene imposto possano effettuare delle scelte imprevedibili. Nelle considerazioni di Henry Lefebvre, non è tollerabile che, persino dopo processi di rigenerazione, alcune aree urbane non lascino osservare la logica dell’accumulazione. Non è accettabile che alcuni gruppi sfuggano alla ‘società burocratica del consumo pilotato’. Questi gruppi, quindi, vanno esclusi. Ma Lefebvre insiste che le strade cittadine hanno sempre posseduto una funzione ‘informativa, simbolica e ludica’. Allo stesso tempo, sono sempre state luoghi del disordine. Lo spazio urbano pubblico consente ai gruppi di costituirsi, prendere forma, apparire sulla scena e appropriarsi di luogo e tempo. I cambiamenti sociali, spesso, avvengono proprio per strada, a dimostrazione che quello che appare come disordine in realtà può generare un novo tipo di ordine. I graffiti, in questo senso, sono una risposta al ‘consumo pilotato’, mentre le strade, dice Lefebvre, sono diventate corridoi per la circolazione delle merci, spazi nei quali le persone sono tollerate soltanto se si limitano a passarsi accanto, a sfiorarsi, senza però mai interagire.
Siamo di fronte a un paradosso: esclusi dal mercato e dalla sua religione, materialmente impediti nel maturare ogni forma di lealtà nei confronti del consumo pilotato, banditi dall’uso dello spazio e della strada, questi gruppi marginali dovrebbero chissà come esprimere una sensibilità sociale che viene loro costantemente negata. L’idea di disordine emerge con la stessa nascita dell’urbano e accompagna l’intera storia del pensiero sociologico. Tuttavia, la domanda di ordine (o sicurezza) tende ad aumentare in periodi nei quali la domanda di partecipazione politica è in declino. La sfiducia nella politica ufficiale si traduce nella richiesta di interventi immediati, di criminalizzazione, di giustizia sommaria. In simili periodi, l’ansia relativa al disordine trova sostegno e legittimazione persino in alcune teorie criminologiche, particolarmente quelle che ruotano intorno a nozioni di svantaggio e deprivazione. Anche queste teorie, che quando sono state formulate erano indubbiamente progressiste, possono produrre effetti contrari a quelli previsti. Pensiamo al concetto di deprivazione relativa, secondo cui molte persone svantaggiate, circondate da una ricchezza che non possono raggiungere, cominciano pian piano a pensare ai modi alternativi per avervi accesso.
Sarebbe interessante verificare se simili concetti non abbiano migrato dalla comunità delle scienze sociali verso altri gruppi professionali. Potrebbe anche darsi, ad esempio, che magistrati e tutori dell’ordine, rispettivamente, condannano e arrestano i marginali in quanto prima o poi saranno comunque costretti a farlo, visto che chi è colpito da deprivazione relativa è destinato prima o poi a commettere reati. In questo caso, dovremmo concludere che le percezioni del disordine sono il riflesso di percezioni parallele che l’ingiustizia sociale sta raggiungendo livelli pericolosi.
Quello di cui si ha paura, allora, non è il disordine sociale o la criminalità, ma le conseguenze potenziali dello spaventoso aumento dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza.
* Professore di Sociologia Middlesex University Londra

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