Sovraffollamento record. 21.457 detenuti di troppo
Se l’amministrazione penitenziaria fosse un’azienda, avrebbe da tempo dovuto portare i libri in tribunale. Ma a essere condannati, più che gli amministratori, sarebbero, per così dire, i proprietari. Vale a dire i responsabili politici. E qui il fallimento è manifestamente per dolo, giacché i problemi sono noti, analizzati e denunciati da tempo immemore (e significativamente spesso in modo congiunto e omogeneo da parte di tutti i diretti interessati: detenuti, associazioni, volontariato, operatori, direttori, agenti), senza che misure minimamente adeguate siano mai state messe in campo.
Sui numeri delle carceri, tuttavia, andrebbe sempre ricordata l’avvertenza di uno che se ne intendeva: Francesco di Maggio, già magistrato di punta. Nei primi anni Novanta, da poco insediato al vertice delle carceri, provocò scalpore affermando che le statistiche penitenziarie erano inattendibili e inverificabili. Del resto, proprio la sua franchezza e ancora di più i suoi contrasti con i sindacati del personale («Pretendono di gestire ancora in maniera consociativa l’amministrazione penitenziaria. Unàingerenza intollerabile», dichiarò a “la Repubblica” del 30 gennaio 1994), causarono il suo licenziamento da parte dell’allora Guardasigilli Alfredo Biondi. In quell’occasione, i giornali titolarono sui brindisi di festeggiamento degli agenti di custodia.
La stessa cosa successe parecchi anni dopo, quando un ministro della Giustizia di opposta parte politica, Oliviero Diliberto, da un giorno all’altro defenestrò da Capo del DAP Alessandro Margara. Per far posto a GianCarlo Caselli, dopo la deludente esperienza alla procura di Palermo, si disse; ma soprattutto per accattivarsi i tanti e potenti sindacati corporativi della polizia penitenziaria, indispettiti dal tentativo di Margara di mettere mano a un problema annoso e tuttora irrisolto: quello che vede istituti del Nord costantemente sotto organico e altri del Sud con personale esorbitante.
Insomma, nelle carceri nulla è certo e stabile: né le cifre, né gli incarichi. Quel che pare invece del tutto prevedibile è il collasso del sistema. Del resto, lo aveva pronosticato con esattezza lo stesso Di Maggio in un’altra intervista: «Arriveremo presto a quota sessanta-settantamila, contro una capienza di trentasettemila» (“la Repubblica”, 27 maggio 1994).
La sequenza storica dei detenuti presenti conferma la facile profezia: al 31 dicembre 1991 i reclusi erano 35.469 (di cui il 15,13% stranieri). Dieci anni dopo erano 55.275 (di cui il 29,48% stranieri), mentre al 30 giugno 2011 erano 67.394 (il 35,96% stranieri). Ora, a fine agosto, sono 67.104, di cui 24.155 stranieri
Nel giro di vent’anni siamo dunque arrivati al raddoppio. Con qualche stranezza: i detenuti crescono ma le carceri diminuiscono, mentre la capienza rimane sostanzialmente uguale. Almeno stando ai dati degli ultimi tre mesi: al 30 giugno 2011 gli istituti erano 208 (con capienza regolamentare di 45.732 posti), il mese seguente 207 (capienza 45.681), mentre a fine agosto sono divenuti 206 (capienza 45.647).
Calano anche i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione, a conferma del lento declino della “legge Gozzini” e dell’agonia di una stagione di riforme. Nel complesso, al 31 agosto 2011, gli affidati in prova erano 9.778, i semiliberi solo 921. Quasi inutilizzati gli istituti del lavoro all’esterno (477), del lavoro di pubblica utilità (239) e della sospensione condizionale della pena (17!).
Se i reclusi sono raddoppiati in soli quattro lustri, in compenso è rimasto quasi stabile il numero di coloro che riescono a lavorare: al 31 dicembre 1991 erano 10.902 (il 30,74% dei presenti), 13.823 nel dicembre 2001 (25,01%), 14.174 (20,86% dei presenti) nel dicembre 2010.
I numeri raccontano insomma che dall’escalation del sovraffollamento, destinato a portare al tracollo le strutture, non se ne sta uscendo e che non vi sono segnali di controtendenza. La valvola di sfogo delle misure alternative è stata – dissennatamente – ostruita. I programmi di edificazione di nuove carceri sono risultati estremamente costosi, di lunga e difficile esecuzione e totalmente inefficaci. I provvedimenti di indulto – specie se pasticciati e limitati, come l’ultimo del 2006 – si sono rivelati un pannicello caldo. Riforme strutturali non sono nei progetti e nelle intenzioni di nessuno degli schieramenti politici. L’attenzione sociale alle problematiche di chi vive e di chi lavora nei penitenziari è intermittente e comunque insufficiente.
Forse, l’unica ricetta paradossalmente di buon senso rimane quella a suo tempo enunciata dal buon Di Maggio a chi lo intervistava: «La soluzione a tutti i problemi delle carceri? Gliela do subito: chiuderle».
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