Uno spaesamento da rivoluzionari

Stefano Savona interroga l’Egitto durante la stagione delle «primavere arabe». E il film è un work in progress, fra utopie politiche e emozioni in conflitto
«Tahrir – Liberation Square» è stato girato nei giorni caldi che hanno portato all’abbattimento del regime di Hosni Mubarak Il regista si muove leggero tra la folla, osserva e filma chi reclama la sua vita indietro e un futuro In gara, «Vol spécial» di Fernando Melgar narra l’odissea degli immigrati rispediti in patria

Stefano Savona interroga l’Egitto durante la stagione delle «primavere arabe». E il film è un work in progress, fra utopie politiche e emozioni in conflitto
«Tahrir – Liberation Square» è stato girato nei giorni caldi che hanno portato all’abbattimento del regime di Hosni Mubarak Il regista si muove leggero tra la folla, osserva e filma chi reclama la sua vita indietro e un futuro In gara, «Vol spécial» di Fernando Melgar narra l’odissea degli immigrati rispediti in patria

 LOCARNO.Non vedremo probabilmente mai Inconscio italiano al cinema o in tv, in Italia. Il film di Luca Guadagnino, molto applaudito dal pubblico internazionale, sarà al prossimo festival di Torino, come ha annunciato il regista, e poi chissà. Una vera vergogna, non l’unica, del resto, nello stato di crescita del nostro immaginario e della consapevolezza collettiva del nostro paese. Ma visto i temi, fascismo, colonialismo, razzismo, Berlusconi e la Lega, non c’è da sorprendersi se questo film non trova spazio nell’Italia che azzera la televisione pubblica ancora critica – e la maggior parte degli archivi utilizzati da Guadagnino appartengono al Luce, che invece di divulgarli li tiene accuratamente sotto chiave.

Non c’è solo questo. Il film di Guadagnino pone un’altra questione, molto attuale, che riguarda il modo di guardare (e di filmare) l’altro. E poco importa se non vediamo un solo etiope – a parte quelli negli spezzoni d’archivio – l’altro è piuttosto nella rappresentazione e nella ricerca di un’immagine (consapevole) di noi stessi e della realtà. Stefano Savona sa filmare l’altro, e chissà se c’entra l’origine comune palermitana di questi due registi, quasi coetanei, o è il fatto che entrambi si sono staccati dal sistema italiano – Savona vive e lavora a Parigi da molti anni. E la sapienza del «filmare l’altro» è fondamentale in un film come Tahrir – Liberation Square girato nei giorni della Rivoluzione in Egitto che ha battuto il regime di Mubarak.
Tra Savona e Il Cairo c’è un legame sentimentale profondo. È una città in cui ha vissuto, e vi è tornato più volte seguendo le ricerche da archeologo, la via percorsa prima di arrivare al cinema. Ma questo non sarebbe bastato a allenare uno sguardo e una fisicità del filmare: Savona è presente nei momenti importanti e al tempo stesso quasi «invisibile», non è la «testa parlante» che il regista cerca nei suoi incontri, la testimonianza cioè a uso e consumo delle telecamere, e di quanto serve sentirsi raccontare. Piuttosto è lo spaesamento, la contraddizione, il conflitto che si accendono in situazioni in cui qualcosa sta accadendo, ma non ha ancora forma. In questo spazio mentale e concreto delle possibilità prende forma il suo fare-cinema, documentario o finzione sono categorie vuote rispetto a queste immagini che sanno catturare l’attimo, il «working in progress» del vissuto intuendovi (anche per noi spettatori) le trame delle cose a venire.
In Piazza Tahrir non era facile muoversi, e dare identità e forma a migliaia di persone. C’è l’Egitto povero, la piccola borghesia, uomini e donne, giovanissimi e meno giovani che arrivano da tutto il paese per urlare la loro rabbia contro Mubarak. «Gli egiziani sono qui», «Mubarak vai via». Si mangia in strada, si dorme sulla piazza, si curano lì i feriti… In Piazza si prega e si discute, le poesie confondono lacrime e rivolta. I soldati di Mubarak sparano, i più anziani increduli maledicono chi uccide i suoi stessi cittadini. Un uomo coi capelli bianchi ha in mano il ritratto di Guevara, una donna dice che Allah penserà a tutto, le ragazze ridono, la protesta sembra un canto ritmato dalle mani, compeare una fotografia di Nasser, lontano sembra quasi di sentire la voce di Oum Khalsoum.
Savona si muove leggero, nel suo obiettivo scorre la vita che è, per tutti, sulla piazza, la Rivoluzione. Senza capi e con la paura di venire strumentalizzati, ci provano i politici vecchi e presunti nuovi, i militari fischiati implacabilmente, i Fratelli Musulmani che la piazza teme.
Non ci sono dei protagonisti, lo sono cioè tutti gli egiziani in piazza Tahrir, ma davanti alla macchina da presa di Savona ritornano alcuni ragazzi: Noha, Ahmed Elsayed si confrontano e parlano delle loro paure. Cosa sarà il futuro? Uno stato secolare o uno stato religioso? Bisogna prima cacciare Mubarak, dice la ragazza. E poi ci saranno le elezioni, sceglieremo noi e se non andrà bene torneremo qui. Perché la Primavera araba esiste, mi spiace per chi dice il contrario, ed è diverso da tutto quanto è stato finora, è una battaglia per la libertà e per il diritto, per la giustizia e per rivendicare una prima persona, una partecipazione troppo a lungo negata…
Migliaia di mani alzate agitano le scarpe mimando un calcio a Mubarak. Sarà vittoria, il governo si dimette, ma non è la fine, è anzi soltanto un possibile inizio…
Filmare l’altro si diceva. Savona (il montaggio sapiente di giorni di riprese è di Penelope Bortoluzzi) sa guardare questo movimento senza giudizi, ascolta paura, dolore, speranze, momenti di felicità. I nostri interrogativi sono frammenti di un insieme, la preghiera costante, le donne quasi tutte velate, è il nostro sguardo chiuso in griglie interpretative predefinite che li classifica come segnali univoci. Noha, la ragazza che più spesso interviene di fronte alla telecamere, porta il velo come le sue amiche, ma non vuole l’islamizzazione sociale né i Fratelli Musulmani, e poi ci sono i ragazzi che pregano discutono con le loro coetanee di libertà. Ma il cinema è questo scarto di conoscenza e di dubbio.
Non si può dire lo stesso di Fernando Melgar, regista svizzero il cui precedente La Forteresse era stato molto acclamato. Si parlava di un centro di detenzione per immigrati senza documenti, a partire dall’ambiguità della controllata gentilezza che governa quell’universo di sofferenza.. Anche Vol spécial ci porta in un centro di detenzione per immigrati «non regolari», a Frambois, vicino a Ginevra, dove tutto è «clean», toni amichevoli anche per comunicare l’espulsione, ricerca di confidenza, la villetta bassa e bianca di un paternalismo che mimetizza la propria disumanità.
Qui si incrociano i destini di uomini, africani, kosovari, che hanno vissuto anche dieci o più anni in Svizzera, che hanno un lavoro, una famiglia, dei figli anche piccoli nati in Svizzera, una donna che amano, una casa, che pagano le tasse, ma che non sono in regola. Perciò, all’improvviso, si ritrovano ammanettati nel centro di detenzione, aspettando il giorno fatidico in cui gli annunceranno la partenza. Possono rifiutare ma dopo ci sarà solo il «Vol special» del titolo. Ammanettati, legati, uno di loro muore. Si apre un’inchiesta e per un po’ le deportazioni sono sospese.
È terribile nell’Europa pulita della democrazia e dello pseudobenessere, ma il razzismo è un «inconscio» assai remoto …
Servono senz’altro a informare i film come quello di Melgar, eppure ancora una volta qualcosa lascia infastiditi. È il tutto tondo di una rappresentazione nella quale non ci sono sfumature né contraddizioni, gli immigrati sono tutte vittime e il sistema è atroce. Oltretutto, non si concede autonomia all’«altro» e lo si relega in un ghetto concettuale. D’accordo, ma non è che, al tempo stesso, questa dose di «buona coscienza» non serva invece a rassicurarci, a dire: «ecco però c’è anche chi denuncia?». Più difficile, e doloroso, è fare i conti con gli aspetti inclassificabili della realtà comune a noi e all’«altro».

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