MONDO IN NOIR
Un coltello della mafia cinese per saldare il conto di un pizzo non pagato. Una corsa di trotto al cardiopalma. Le premesse di una guerra tra bande per il controllo del nordest
MONDO IN NOIR
Un coltello della mafia cinese per saldare il conto di un pizzo non pagato. Una corsa di trotto al cardiopalma. Le premesse di una guerra tra bande per il controllo del nordest
Chen strinse gli occhi. Due fessure sottili su cui gocciolava liquido rosso. Dai tagli profondi sulla fronte il sangue scendeva creando un velo che gli offuscava lo sguardo. Una promessa di morte.
Le ferite gliele aveva inferte Zhang, il ragazzo che gli stava davanti.
Zhang lo guardava sorridendo. Teneva in mano un coltello Butterfly, la lama era rossa del sangue di Chen. Esplose in una risata isterica mentre si soffermava sui dettagli del piccolo negozio.
Annusò l’aroma delle spezie e spostò per un attimo gli occhi sulle confezioni colorate di cibo in scatola: i pacchi arancioni e viola di «noodles Mie Gong Tan», quelli gialli e rossi del quick cooking, le scatole grigie di farina per le brioche al vapore Salapao, i pacchetti trasparenti dei vermicelli di riso Wai Wai, e quelli fatti con le patate dolci Yan Long.
Sorrise ancora una volta, soddisfatto. Come se tutti quei prodotti fossero roba sua. Si leccò il labbro superiore con la lingua. Una luce spietata lampeggiava nei suoi occhi.
«Ti sei fatto proprio un bel negozio, vero Chen?».
«S-sì…».
Zhang ricominciò a giocare con il doppio manico del Butterfly. La lama corta saettò nell’aria come una lingua affamata, dondolando rapida in una danza macabra e scintillante. Il ragazzo sembrava voler indugiare prima di cominciare a fare sul serio. Si prese tutto il tempo necessario, in modo che il terrore tagliasse le ossa all’uomo piccolo e magro che aveva davanti.
Sul banco in fòrmica dove Chen aveva sistemato il registratore di cassa e i contenitori delle caramelle dai colori sgargianti c’era un mazzo di gladioli rossi. I lunghi gambi dei fiori componevano una specie di fitta losanga verde. I petali, forti e carnosi, diffondevano un profumo intenso, una fragranza pungente.
«Li hai visti?» chiese Zhang, spostando il mento in avanti e indicando con un semplice gesto delle dita i gladioli.
«Sì…» mormorò Chen con un filo di voce.
«Lo sai anche tu cosa significano, no?».
«Spada…».
«Già, spada di sangue, morte certa, maledetto ingrato! È inutile che speri di sfuggire alla mia ira e a quella del tuo signore Guo Xiaoping, la Testa di Dragone dei Pugnali Parlanti! Lo sanno anche Xin e Lao che devi morire».
Xin e Lao, capelli corti e occhiali da sole, gli avevano appena legato le mani dietro la schiena. I loro sguardi erano seminascosti da lenti fumé su cui i neon del negozio facevano rimbalzare spicchi di luce. Eppure Chen sentì che i loro occhi gli stavano scavando il viso.
Zhang inspirò forte dal naso. «E tutto perché sei in ritardo anche con il pagamento di questo mese – gli disse – Vuoi tenere solo per te quello che stai accumulando grazie a mio zio? Sei diventato avido, Chen? Dobbiamo chiederti il permesso per avere quello che ci è dovuto, piccolo granchio di fiume?»
Chen aveva la bocca sigillata, la paura gli incollava le parole che avrebbe voluto dire. Abbassò lo sguardo. Lacrime silenziose si fecero largo nel sangue e andarono a segnargli le gote del viso magro, dagli zigomi alti e ossuti.
«Non credo di averti sentito» lo incalzò Zhang.
«Guo non deve certo chiedere ciò che gli spetta…».
«Ah, così va un po’ meglio – sbuffò Zhang -. Dopotutto non sei così stupido come vuoi farci credere!». Si avvicinò ai barattoli colorati di funghi Shitake-Poku e alle lattine verdi di bambù tagliato a striscie Aroy-D. Passò il coltello nella mano sinistra e con la destra tirò giù i barattoli dagli scaffali.
Un fiume di latta si schiantò al suolo. Un rumore improvviso e fragoroso. Zhang prese a calci i barattoli mandandoli a rotolare lontano da lui.
Si girò di nuovo verso Chen.
«Vuoi tutto per te, vero? Maledetto! Ti sei dimenticato che mio zio vede quello che fai. Guo Xiaoping è il signore della montagna. E ha mandato me per rinfrescarti la memoria. Io sono la cura delle ferite infette. I Pugnali Parlanti sono come il corpo di un grande drago. E il corpo non può funzionare se ogni arto, ogni organo, ogni molecola non fanno esattamente ciò che per natura sono chiamati a fare. Chen, la tua natura è pagare quello che devi a Guo».
Così dicendo Zhang gli si avvicinò. Allargò la bocca in un sorriso delirante. Mulinò il coltello davanti al volto del vecchio, poi con un gesto veloce gliel’affondò nella pancia.
La lama penetrò a fondo per quattro volte. Entrava nella carne e ne fuoriusciva gocciolante, pronta a mordere di nuovo.
Avendo le mani legate, Chen non poté nemmeno portarle al ventre. Con gli occhi sul punto di saltargli fuori dalle orbite per il dolore, vide fuoriuscire le sue viscere senza poter fare nulla. Le gambe cedettero lentamente. Xin e Lao lo accompagnarono con le braccia mentre si accasciava sul pavimento. Si accoccolò dolcemente per terra, in una pozza di sangue e viscere.
«Puah! Che schifo… – sibilò Zhang -. Sembri un pesce sventrato! E tutto perché non hai voluto ascoltarci, stupido piccolo ingordo!». Poi alzò lo sguardo dal pavimento e piantò di nuovo gli occhi su Xin e Lao.
«Pulite tutto, mi raccomando. Da domani questa merda di posto avrà un nuovo titolare».
«Che ne facciamo del cadavere?» chiese Xin.
«Ho visto che nel retro c’è un bagno. Fatelo a pezzi nella vasca e chiamate mio zio. Vi darà un indirizzo. Impacchettate il vecchio nelle borse di plastica, infilatele nel bagagliaio e guidate fino a quella casa. Entrate dal cancello automatico e scaricate tutto nel seminterrato. Infilate i pezzi nel forno della stanza in fondo al corridoio e bruciate ogni cosa. Ecco le chiavi. Io vado a vedere cosa sta combinando quell’incapace di Longhin. Ho garantito per lui e non posso permettermi che fallisca. Ne va del mio onore».
Mentre Xin e Lao trascinavano il cadavere di Chen verso la porta del bagno, Zhang estrasse dalla tasca un fazzoletto di seta rossa e lo passò delicatamente sulla lama del Butterfly. Fece un lavoro meticoloso. Con uno scatto del polso richiuse il coltello, se lo infilò nella tasca dei pantaloni del completo grigio fumo e uscì con passo elegante dal minimarket.
* * *
Faceva davvero freddo.
Cumuli di neve sporca ai bordi delle strade. Festoni grigi lungo tutto il tragitto.
Severino Pierobon, detto Duecento dagli amici perché in genere il cavallo su cui scommetteva lo tradiva negli ultimi duecento metri di pista, era arrivato all’ippodromo Le Padovanelle a bordo della sua Citroën C2 giallo limone. Come sempre aveva trovato subito parcheggio. L’ippica era uno sport in via di estinzione e il giro di scommesse del Totip una vecchia chimera per nostalgici.
Aveva fatto tutto per bene, come al solito. Si era studiato con attenzione i cavalli, i risultati delle ultime corse, gli ordini d’arrivo, i commenti tecnici.
Per lui il trotto era roba seria. Ce l’aveva nel sangue già da ragazzino, quando accompagnava il nonno alle Padovanelle. Da allora, ogni fine settimana consumava lo stesso rito. Qualche volta era anche riuscito a vincere, ma sempre piccole cifre, quanto bastava per tornare a casa con un cabarè di paste. Le divorava da solo in cucina, si stordiva di zuccheri perché adorava i dolci, anche se ormai a causa del diabete avrebbe dovuto starci attento.
Non fumava e non scopava, Severino Pierobon. Beveva grappa e mangiava dolci. E questo era quanto. Aveva cinquant’anni, e nessuna intenzione di campare fino a novanta nutrendosi di radici, cereali e insalate. Tanto valeva crepare subito.
Stringeva in una mano un bicchiere di carta con dentro un cappuccino molto zuccherato.
Sapeva di dover sperare in Dio. O in chi per lui. Nonostante l’infinita esperienza non era mai riuscito a elaborare un metodo per vincere alle corse: le variabili erano decisamente troppe. Ma proprio quel senso di assoluta incertezza e di follia lo portava a scommettere. Una sensazione inebriante almeno quanto la speranza che lo azzannava alla gola non appena vedeva i sulky scattare sulla linea di partenza.
Si grattò la barba incolta e pensò che era la prima volta che giocava di lunedì. Non aveva mai fatto così freddo a Padova, e a causa dell’abbondante nevicata il programma del sabato era stato rimandato di due giorni.
Indugiò a lungo al bar e fece pure una sosta ai bagni. All’improvviso si rese conto che doveva darsi una mossa. Inforcò la porta che conduceva alle tribune e raggiunse la ringhiera a bordo pista nel momento esatto in cui Gastone Pink scattava insieme agli altri concorrenti. Anzi no. Scattava troppo presto.
Aveva sperato di assistere una volta tanto a qualcosa di nuovo, ma niente da fare: quel cavallo piccolo e velocissimo, scuro come il cioccolato, si era dapprima appaiato a Bon Vivant, poi aveva guadagnato la testa della corsa.
Era più forte di lui, faceva parte della sua natura: Gastone Pink partiva sempre in testa. Solo che non teneva alla distanza. Il suo grande tallone d’Achille. Lo sapevano tutti, anche Duecento. E infatti Alberto Leoni, il driver, era lì a muovere le chiappe sul sulky cercando di farlo rimanere davanti fino alla fine.
Severino Pierobon scosse la testa.
Con un gesto di stizza lanciò per terra la copia spiegazzata di Trotto & Turf. Rimase a guardare quel dannato gianduiotto a quattro zampe che si preparava a scoppiare nel finale. In cuor suo sperava ancora di sbagliarsi, magari Gastone Pink aveva in corpo birra a sufficienza per schiantare gli avversari.
Attorno a lui gli aficionados delle Padovanelle fissavano zitti quei dodici mantelli lucidi e filanti sulla sabbia della pista.
Era sempre uno spettacolo magnifico vederli procedere impettiti, fieri, velocissimi, gli zoccoli che battevano ritmicamente il tempo della sfida.
Il freddo non dava tregua, l’aria gelida tagliava i volti, le nuvole si attorcigliavano come riccioli bianchi di grasso nella padella azzurra del cielo.
«Gastone Pink scoppia nel finale – disse qualcuno -, non è ancora maturo e Leoni non riesce a tenerlo. Peccato, perché sarebbe davvero un bel cavallo».
Parole buttate lì, commenti lanciati al solo scopo di infastidire. Severino Pierobon vedeva già davanti a sé l’ennesima Caporetto.
Ma il trotto non è uno sport come gli altri, i cavalli sono bestie strane. Che uno ci creda o no, non accade mai quello che la gente si aspetta. E Severino Pierobon detto Duecento questo lo sapeva.
Gastone Pink rimaneva in testa. Non cedeva di un millimetro. Chissà, magari per una volta avrebbe fatto uno strappo alla regola tenendo duro. Un lampo di soddisfazione cominciò timidamente a disegnargli un ghigno sul volto.
I secondi passavano, Duecento se li sentiva rotolare dentro la testa. Ogni volta che se ne aggiungeva uno, l’immagine del suo cavallo che tagliava per primo il traguardo diventava meno stravagante.
Il piccolo baio continuava a mettere metri sotto quelle zampe tozze e muscolose e pareva prenderci gusto. Ci stava dando dentro e aveva guadagnato un certo margine, lasciando indietro gli avversari di una decina di metri. Rispondeva perentorio agli attacchi degli undici diavoli scuri che cercavano di riprenderlo, tirava dritto come se l’avessero drogato, fregandosene di quegli stupidi umani che a un certo punto avevano cominciato a urlare. Le zampe pennellavano il passo senza mai romperlo e – incredibile – Gastone Pink stava guadagnando altro terreno.
Alberto Leoni lo incitava dal sulky gridandogli una parola assolutamente incomprensibile. Il puledrino andava che era una meraviglia.
«Vaaai, vai piccolo bastardo!» si sentì urlare Duecento, le parole che gli sbattevano contro i denti stretti e le mascelle serrate. Poi… poi accadde quello che non avrebbe mai voluto vedere: dal gruppo si staccò una puledra scura dalla muscolatura imponente, grande come una petroliera. Duecento cominciò ad aver paura. Sentì vacillare l’entusiasmo, avvertì un dolore metallico alla bocca dello stomaco, trattenne il respiro. Rimase fermo, immobile, quasi a non voler alterare il magico equilibrio che poteva condurre il suo cavallo verso una vittoria sorprendente.
«E adesso Imperatrice si beve Gastone Pink» disse una signora grassa e dalla pelle butterata, infilata in un ampio cappotto con il collo di pelo sintetico. Ma Severino Pierobon decise di non mollare. Proprio come Gastone Pink.
*******************
L’AUTORE
Matteo Strukul è nato a Padova nel 1973. Scoperto dallo scrittore Massimo Carlotto, è cofondatore di Sugarpulp – movimento letterario dedicato al pulp-noir, www.sugarpulp.it – e ha collaborato con riviste (Buscadero, Jam, Classix) e quotidiani («Il Mattino» di Padova, «La Nuova» di Venezia e Mestre, «La Tribuna» di Treviso). Responsabile dell’ufficio stampa di Meridiano Zero, è dottore di ricerca in diritto europeo dei contratti e ha pubblicato saggi musicali su Massimo Bubola e Massimo Priviero. Il suo racconto «Bambini all’inferno» è stato pubblicato sul Manifesto.
Il suo sito è www.matteostrukul.com. Potete scrivergli a:
matteostrukul@sugarpulp.it
0 comments