Morte agra di un anarchico

I FANTASMI MERIDIONALI DI FRANCESCO MASTROGIOVANNI
Due anni fa «il maestro più alto del mondo» moriva legato a un letto di contenzione nell’ospedale di Vallo della Lucania. Il filo rosso che unisce la sua storia a quella di Giovanni Marini che colpì a morte il missino Falvella e agli «anarchici della Baracca» reggini che indagavano sull’attentato al treno di Gioia Tauro. Sullo sfondo, le trame nere del neofascismo italiano e dei servizi deviati

I FANTASMI MERIDIONALI DI FRANCESCO MASTROGIOVANNI
Due anni fa «il maestro più alto del mondo» moriva legato a un letto di contenzione nell’ospedale di Vallo della Lucania. Il filo rosso che unisce la sua storia a quella di Giovanni Marini che colpì a morte il missino Falvella e agli «anarchici della Baracca» reggini che indagavano sull’attentato al treno di Gioia Tauro. Sullo sfondo, le trame nere del neofascismo italiano e dei servizi deviati

 Oggi, due anni fa, si chiudeva su un letto di contenzione di un piccolo ospedale nel cuore del Cilento una storia tragica che aveva cominciato a essere scritta quarant’anni prima, trecentocinquanta chilometri più a sud. È la storia, collettiva, di un pugno di ribelli meridionali che hanno pagato tutto intero lo scotto di aver voluto consumare la loro vita in direzione ostinata e contraria. Ma sono pure le parabole, singolari e per ironia della sorte coincidenti, di ognuno di loro: Muki «la rossa», Gianni, Angelo, Franco, Luigi, Giovanni «il poeta dei giusti e dei folli», ancora Francesco «il maestro più alto del mondo».

Per provare a riannodarne il filo in un breve articolo che meriterebbe essere un romanzo non si può che partire dall’ultimo tassello. Meglio, dal giorno in cui un blitz congiunto di vigili urbani, carabinieri e guardia costiera accerchia la spiaggia di San Mauro Cilento per catturare un uomo solo. È un insegnante elementare di 58 anni, affettuosamente chiamato dai suoi alunni «il maestro più alto del mondo» per via del suo metro e novanta di altezza. Chi lo conosce, lo descrive come una persona affatto violenta che si riscalda solo quando si parla di politica, le cartelle cliniche lo raccontano in maniera asettica come «aggressivo verbalmente», con una particolare avversione verso le forze dell’ordine, aggiungono i bene informati. Nelle caserme di polizia e carabinieri è schedato come «noto anarchico» ed è segnalato a causa di una denuncia per resistenza aggravata dopo una multa per divieto di sosta, nel ’99.
Una vicenda controversa, perché Francesco aveva a sua volta accusato gli agenti per arresto illegale, lesioni personali, abuso di autorità e calunnia, sostenendo di essere stato picchiato in caserma, e dalla quale era uscito assolto e risarcito per l’ingiusta detenzione. Si tratta però, tutto sommato, di dettagli, o forse degli effetti collaterali di uno stigma che risale a trent’anni prima. In paese tutti conoscono la sua storia. Si tratta di una vicenda dolorosa e drammatica, che coinvolge due giovani anarchici di paese e appassiona migliaia di militanti dell’estrema sinistra in tutta Italia, e spinge un Dario Fo fresco di denuncia della «morte accidentale» dell’anarchico Pinelli volato da una finestra della questura di Milano a schierarsi in prima persona.
Sono le 21,30 del 7 luglio 1972. Via Velia è una breve strada che dal centro storico di Salerno scende verso il lungomare. Giovanni Marini è un giovane di 26 anni che ha fatto in tempo ad abbandonare l’ortodossia del Pci per abbracciare il libertarismo movimentista e anarchico, con lui c’è il poco più che ventenne Mastrogiovanni. Il gruppetto viene accerchiato da una banda di fascisti locali, gli stessi che un paio d’ore prima avevano spintonato lo stesso Marini che era sul lungomare in compagnia di un diciassettenne, Gennaro Scariati. Marini non risponde alle provocazioni come già aveva fatto in precedenza, Francesco prova invece a discutere con loro e a convincerli a non attaccare briga. Ne riceve in cambio una coltellata a una coscia e cade semisvenuto. Il suo compagno a quel punto reagisce, toglie il coltello ai fascisti e li colpisce, uccidendo Carlo Falvella e ferendo all’inguine Giovanni Alfinito. Sono entrambi militanti del Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, la cui sede è nella stessa strada.
La campagna per la liberazione dell’anarchico Marini appassionò l’estrema sinistra italiana, meno il Pci («difendersi dai fascisti non è reato, compagno Marini sarai liberato», cantava il Canzoniere di Salerno). Il processo fu spostato per motivi di ordine pubblico da Salerno a Vallo della Lucania, e al termine Marini fu condannato a dodici anni di carcere per omicidio preterintenzionale aggravato e concorso in rissa. Saranno ridotti a nove e ne sconterà sette, durante i quali si riscoprirà poeta e vincerà finanche il premio Viareggio “opera prima” con la raccolta E noi folli e giusti. Ma la vicenda di cui era stato protagonista peserà per sempre sulla sua vita, spingendolo all’autoesilio dal movimento anarchico e a un forte disagio psichico ed esistenziale, che lo porterà a essere licenziato dalla Comunità montana Vallo di Diano a Padula dove aveva trovato lavoro una volta uscito dal carcere e infine alla morte, solitaria e lontana dal mondo, nel suo paese di origine nel cuore del Cilento, Sacco, nel 2001.
È proprio a Vallo della Lucania, quasi trent’anni dopo il processo che lo assolse, che ritroviamo Francesco Mastrogiovanni. Dopo la «cattura», come viene pomposamente definito il blitz via terra e via mare contro un uomo solo, il “maestro più alto del mondo” è stato portato nel locale ospedale. A firmare il ricovero coatto è il sindaco di un comune vicino, Pollica. Si chiama Angelo Vassallo ed è il sindaco-pescatore che un anno dopo sarà misteriosamente ammazzato a colpi di pistola mentre rientrava a casa, un uomo dalla specchiata onestà e al di sopra di ogni sospetto. È il 31 luglio 2009. Francesco viene sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio e legato a un letto di contenzione, dove lo ritroveremo qualche giorno dopo.
Ma per riannodare i tanti fili di questa storia bisogna fare nuovamente un passo indietro e andare alla notte fra il 26 e il 27 settembre del 1970. Il caso Falvella è ancora lungi dall’accadere, a Roma si aspetta la visita del presidente Usa Richard Nixon, la seconda in due anni, a Reggio Calabria è esplosa una singolare rivolta contro lo spostamento del capoluogo a Catanzaro che in breve tempo è egemonizzata dall’estrema destra. Il 22 luglio una carica di tritolo aveva fatto saltare un tratto ferroviario nei pressi della stazione di Gioia Tauro, causando il deragliamento di un treno che passava in quel momento e provocando la morte di sei passeggeri e il ferimento di altri cinquantaquattro. L’episodio era stato inizialmente liquidato come un «incidente», ma gli “anarchici della Baracca” (così soprannominati da un edificio che occupavano a Reggio Calabria) avevano sospettato subito che si fosse trattato di un attentato neofascista.
Per questo, quel 26 settembre Gianni Aricò e la giovane moglie tedesca Annalise Borth («Muki la rossa») si mettono alla guida della loro Mini Morris gialla e partono alla volta della capitale. Obiettivo: andare a contestare Nixon e approfittarne per andare a consegnare ai loro compagni della Federazione anarchica italiana un dossier di controinformazione, con tanto di documentazione fotografica, sull’attentato di Gioia Tauro. «Abbiamo scoperto delle cose che faranno tremare l’Italia», raccontano agli amici prima di partire. Sul sedile posteriore ci sono Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso. Il primo, in particolare, si scoprirà essere andato a Palermo a incontrare il giornalista Mauro de Mauro, ucciso poi il 16 settembre del 1970. A portargli o a raccontargli cosa? Alle 23,58, sull’autostrada all’altezza di Ferentino, nel basso Lazio, il tremendo impatto con un autotreno che, all’arrivo del sostituto procuratore di Frosinone, si mostra sulla normale corsia di marcia, con tutte le luci a posto e senza danni evidenti. Nello schianto muoiono tutti gli occupanti dell’auto, la giovane Annelise, che è pure incinta, viene trasportata in ospedale dove morirà dopo 21 giorni senza aver mai ripreso conoscenza. La polizia sequestra bloc notes, documenti personali e altro materiale che non sarà mai più restituito alle famiglie.
Primi a non credere alla versione ufficiale e a porsi delle domande, Mastrogiovanni e Marini si mettono al lavoro per provare a rispondere alle due domande fondamentali sullo strano incidente: chi ha fatto sparire il dossier e le foto che i giovani avevano con loro prima che arrivassero i soccorsi, e perché. Il sospetto è che l’attentato di Gioia Tauro avesse svelato loro l’intreccio tra destra eversiva e ‘ndrangheta finalizzato a destabilizzare il sud Italia in preparazione del poi fallito golpe Borghese. Ad avallarlo c’è una importante scoperta: l’autista dell’autotreno è un salernitano iscritto al Movimento sociale italiano, l’incidente avviene non distante da una villa del «principe nero» Junio Valerio Borghese. Da qui ad affermare che l’aggressione di via Velia a Salerno, un paio d’anni dopo, sia collegata alla morte degli anarchici della Baracca ce ne passa, ovviamente. Quel che è più probabile è che il clima dell’epoca, e l’indagine sulle implicazioni salernitane dell’«incidente», siano stati il brodo di coltura dello scontro di via Velia. Ma, quale che sia l’interpretazione, limitiamoci a seguire il filo rosso che lega i percorsi di vita dei protagonisti, in un sud dei misteri per molti aspetti inedito alle cronache.
È con questo fardello sulle spalle che Francesco Mastrogiovanni decide di concedersi una piccola vacanza nella sua stessa terra, a pochi chilometri dal suo paese, Castelnuovo Cilento. Francesco risiede in un campeggio di San Mauro Cilento, comune che confina con quello di Pollica, che ha come fiori all’occhiello le bandiere blu per il mare più bello d’Italia e l’invenzione della dieta mediterranea. È qui che lo ritroviamo alle 23,30 del 30 luglio, quando il sindaco Vassallo chiama il capo dei vigili urbani, che in quel momento è fuori servizio, chiedendogli di andare ad Acciaroli perché c’è bisogno di un Trattamento sanitario obbligatorio. L’ufficiale della polizia municipale racconterà al processo di aver visto un’auto ad alta velocità lungo l’isola pedonale, a bordo un uomo con lo sguardo perso nel vuoto. Nessuno lo fermerà e nemmeno lo multerà come il codice della strada avrebbe imposto, l’auto non provocherà alcun incidente. Quell’uomo è Francesco Mastrogiovanni, lo stesso che la mattina dopo viene notato dal vigile della sera precedente sul luogo del delitto, il lungomare di Acciaroli. L’agente chiede l’intervento dei carabinieri, Mastrogiovanni scappa, torna al campeggio, va in spiaggia e si butta in mare. I carabinieri gli sgonfiano le ruote dell’auto per impedire ulteriori fughe, poi chiedono l’intervento della guardia costiera perché l’uomo non intende uscire dall’acqua. Arriva un primo medico ed emette la diagnosi: schizofrenia. Arriva poco dopo una dottoressa dell’Asl e la conferma. Il sindaco Vassallo firma l’ordinanza di ricovero coatto senza che nessuno gli mostri i certificati medici e nonostante Mastrogiovanni si trovi in un altro comune. Dopo tre ore Francesco accetta di uscire dall’acqua e si lascia sedare. Lo lasciano quaranta minuti sdraiato in spiaggia in attesa dell’arrivo dell’ambulanza. Prima di salire a bordo, fa in tempo a dire: «Se mi portano all’ospedale di Vallo della Lucania, mi ammazzeranno». Alle 13 del 31 luglio entra nel nosocomio cilentano. Lo ritroviamo qualche tempo dopo osservando una ripresa della telecamera interna dell’ospedale. Riprende dall’alto “il maestro più alto del mondo” legato mani e piedi al letto di contenzione. Indossa solo un pantaloncino azzurro, con ogni probabilità quello con il quale è stato portato fin lì. Più che abbronzato, appare scottato dal sole. I suoi familiari, amici e compagni denunciano da qualche tempo che non è morto per una tragica fatalità ma è stato lasciato morire, se per dolo o tragica incuria è tutto da stabilire. Quello che sconcerta è la sproporzione tra i mezzi impiegati per fermare un uomo solo e indifeso e i fatti contestati: una violazione del codice stradale, a volerla prendere per buona.
È accaduto oggi, due anni fa, il 4 agosto del 2009. Dopo quattro giorni legato a un letto, senza acqua e cibo, assistenza e sorveglianza, Francesco Mastrogiovanni viene trovato cadavere alle 7,20 del mattino e va ad aggiungersi a una lunga teoria di morti «sospette» per mano dello Stato: Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino. Il processo per la sua morte vede imputati 7 medici e 11 infermieri, accusati di sequestro di persona e morte derivata da altri delitti.
Ancora una volta, non c’è un nesso evidente di causalità tra i fatti di quarant’anni prima e l’accaduto, probabilmente rubricabile come un ennesimo, banale caso di malasanità, a trent’anni dall’approvazione della legge Basaglia. Ma più che chiedersi ancora una volta il perché sia accaduto, se la morte sia ascrivibile a comportamenti purtroppo usuali oppure si tratti di una vendetta, la domanda fondamentale che si pone è: quanto hanno pesato le ombre del passato su quanto è accaduto? Che ruolo hanno svolto lo schianto fatale dei cinque anarchici della Baracca e il fantasma del caso Falvella? Quanto ha inciso sul trattamento riservatogli lo stigma dell’anarchico, del ribelle, del «pazzo», in un paesino del sud Italia dove questi aggettivi per qualcuno possono significare la stessa cosa, e quanto, viceversa, il povero maestro ha psicologicamente pagato lo scotto di quel fatto di sangue di cui era stato vittima? Vittima, ricordiamolo, e non carnefice.

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