Le metalmeccaniche non rinunciano alla democrazia

CONTRO L’ACCORDO
Siamo lavoratrici, delegate, sindacaliste metalmeccaniche iscritte alla Fiom Cgil che, a partire dal seminario Fatica e Libertà  del 17 e 18 aprile 2008, insieme ad altre compagne, hanno dato vita a una rete di donne nel sindacato per allargare la rappresentanza e la democrazia in tutti i posti di lavoro, per far valere e contare nella politica sindacale e nella contrattazione la voce e il pensiero femminile.

CONTRO L’ACCORDO
Siamo lavoratrici, delegate, sindacaliste metalmeccaniche iscritte alla Fiom Cgil che, a partire dal seminario Fatica e Libertà  del 17 e 18 aprile 2008, insieme ad altre compagne, hanno dato vita a una rete di donne nel sindacato per allargare la rappresentanza e la democrazia in tutti i posti di lavoro, per far valere e contare nella politica sindacale e nella contrattazione la voce e il pensiero femminile. Oggi sui posti di lavoro ancora troppo piccola e insufficiente è la presenza di donne nelle rappresentanze elette, ancora minore in quelle nominate e negli organismi dirigenti dei sindacati. A questa democrazia imperfetta abbiamo sempre opposto la pratica della democrazia della partecipazione e rivendicato il diritto a scegliere e far valere le ragioni per cui condividere o no un accordo, un contratto, una proposta. Le assemblee, le riunioni, anche di sole donne, ci sono servite per far valere le nostre idee, anche quando i numeri e i criteri della rappresentanza non erano dalla nostra parte. Il referendum, la possibilità di votare tutti, donne e uomini, è stato lo strumento con cui esprimere il nostro giudizio conclusivo su richieste e intese che riguardavano le condizioni di lavoro e di vita. L’accordo del 28 giugno tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil ci sollecita diverse obiezioni, non lo condividiamo su tre questioni fondamentali:
1) la democrazia. Una Rsu, magari composta di soli uomini, non può togliere alle lavoratrici il diritto di decidere su accordi che riguardano le loro condizioni di lavoro e potrebbero peggiorarne la fatica, magari penalizzare la maternità o aumentare i differenziali di genere nei salari e nelle professioni. Secondo le nuove regole anche nei casi in cui le sole delegate in una Rrs si opponessero ad un accordo contro le donne e discriminatorio, se non fossero la maggioranza, sarebbero poi costrette a far applicare tali accordi (che in casi estremi potrebbero persino spingere le donne alle dimissioni); e neppure potrebbero promuovere azioni di lotta in seguito, per cambiarli. L’accordo quindi ci toglie uno spazio fondamentale di espressione.
2) Contratto nazionale e deroghe. «I contratti collettivi aziendali – si legge nel testo dell’accordo – possono definire specifiche intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro». L’intesa del 28 giugno così sancisce la supremazia della contrattazione di secondo livello, a scapito del contratto nazionale, che può essere modificato in peggio, quindi derogato. I contratti nazionali sono ispirati a principi di solidarietà e fanno prevalere elementi di garanzia generale dei rapporti di lavoro, rispetto alla valutazione delle prestazioni individuali in funzione della produttività e competitività, che sono da sempre elementi penalizzanti per il lavoro delle donne (come i tanti «premi presenza» aziendali che già oggi penalizzano maternità e lavoro di cura). Derogare al contratto nazionale porterà ad ampliare le differenze e a mettere in difficoltà i più deboli;
3) salario di produttività. L’intesa enfatizza la detassazione del «salario di produttività», chiedendone l’ulteriore ampliamento ed estensione. Non ci risulta che tale scelta discenda da una decisione congressuale e/o di un qualsiasi organismo dirigene della Cgil, né che sia uno strumento di equità fiscale. Si sa, al contrario, che proprio nel cosiddetto salario di produttività nasce e si alimenta gran parte del differenziale salariale tra uomini e donne, a parità di mansione. Come metal meccaniche abbiamo più volte denunciato (nel 2008 anche insieme alle donne della Fim), gli effetti perversi della detassazione di queste voci della retribuzione sull’aumento delle discriminazioni salariali tra donne e uomini. L’accordo del 28 giugno invece santifica questa pratica. Nessuno ha sentito la necessità di confrontarsi con le lavoratrici, le iscritte, le delegate, le sindacaliste del settore industriale per valutare con loro gli effetti di quanto si andava a sottoscrivere. Questa è un’ulteriore dimostrazione del vuoto di democrazia e dell’assenza di pratiche di relazione e riconoscimento fra donne oggi all’interno della Cgil, paradossalmente proprio in un tempo in cui il movimento delle donne riemerge con slancio. Anche in questa occasione in cui dobbiamo esprimerci su scelte che non hanno visto il nostro coinvolgimento scegliamo libertà e responsabilità che hanno sempre accompagnato la nostra esperienza e militanza. Per questo diciamo NO a questo accordo sbagliato e dannoso, per riconquistare parola e democrazia nel lavoro e nel nostro sindacato.
*** Il testo completo con le 172 firme si può leggere sul sito www.ilmanifesto.it.

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