Nel centro transennato di L’Aquila non si sente alcun suono. Così quei pochi che vi accedono finiscono per bisbigliare: proprio come se fossero in chiesa. La mappa delle macerie è punteggiata da antichi palazzi che hanno retto. Dentro le mura, catene antisismiche tese secoli fa. Le decorano piccoli gigli, simboli di purezza
Nel centro transennato di L’Aquila non si sente alcun suono. Così quei pochi che vi accedono finiscono per bisbigliare: proprio come se fossero in chiesa. La mappa delle macerie è punteggiata da antichi palazzi che hanno retto. Dentro le mura, catene antisismiche tese secoli fa. Le decorano piccoli gigli, simboli di purezza
Alle sette del mattino, nel centro dell´Aquila deserta, vidi una donna in tulle rosso fuoco attraversare via Paganica. Era pallida e camminava senza fretta, fumando, a filo di transenne. Non so dire se fosse vera o un´apparizione. Certo, somigliava a quella che avevo visto a Pico Farnese accanto alla casa vuota di Tommaso Landolfi, il poeta degli abbandoni. Le case della città perduta erano bagnate dalla luce calda del solstizio, l´ultima neve splendeva sui monti, i tigli erano in fiore e tra le rovine crescevano fiordalisi. L´Aquila era di una bellezza sconvolgente, quasi greca. La donna camminava fumando e d´un tratto mi accorsi che, a cento metri, potevo sentire l´odore della sigaretta e il fruscio del vestito. Potevo distinguere l´alone di luce attorno alla foresta dei riccioli neri. Con un tuffo al cuore ricordai che solo le rovine desertiche di Kabul, dieci anni prima, erano riuscite a conferire una simile millimetrica evidenza – acustica, olfattiva e visiva – al passaggio solitario della persona. Come Kabul, l´Aquila era vuota di rumori e di odori; per questo la visione era stata così perfetta e totale. Mancavano i cigolii, la voce delle stoviglie, l´odore del forno e della cioccolateria. I campanili tacevano. Non c´era anima viva.
Aspettai un risveglio. Ma alle otto nulla si muoveva. Alle nove stessa cosa. Niente voci e niente odori umani. Passarono cinque grossi cani in branco. Si sentì il miagolare di un gatto e un gran cinguettio di passeri. Tutto diceva l´inesorabile avanzata della natura nel vuoto lasciato dall´uomo. Ebbi improvviso bisogno di un rombo di motoretta, di una lite fra comari, del colpo di martello di un falegname e persino di un´autoradio a volume esagerato. Ma quando alle dieci mi raggiunse Patrizia Tocci, anche lei orfana di casa, cominciammo a parlare a bassa voce senza ragione apparente. Non volevamo disturbare il letargo delle pietre, e ci bastava un bisbiglio per capirci. In zona rossa all´Aquila si entra e si tace. Ci si lascia la vita alle spalle. In zona rossa un colpo di tosse è un tuono, il trillo di un telefonino un rimbombo.
Ai piedi dei muri transennati di Santa Maria Paganica solo la fontanella cantava, e così quando venne Enrico, un bimbo di 10 anni col papà e un pallone, mi misi a giocare con lui per rompere quel silenzio cimiteriale, farlo a pezzi a pedate. Giocammo per il gusto di percuotere le pietre, e l´eco delle pallonate rimbalzò per una buona mezz´ora fra il portale trecentesco della chiesa e la soglia barocca del dirimpettaio palazzo Ardinghieri, venerabile magnificenza dal tetto sfondato. Ma era dura competere col vento d´Appennino che faceva da padrone, strattonava i teloni tesi a coprire i restauri. Eravamo un veliero semivuoto in alto mare.
La città del silenzio aveva sue vestali. Come altri magnifici abbandoni, anche qui erano spesso le donne a custodire la memoria. Alla cantina del Boss, affollatissima, sotto i muraglioni del castello poco, la bionda Nicoletta Rugghia mi versò del Montepulciano e fece un memorabile elenco di ciò che era per lei la vecchia Aquila. Città, disse, è la vicina malfidante che spia dalle persiane, è lo sfaccendato, è il ciclista monomaniaco, è la signora invidiosa dei vasi di fiori altrui. Città è il dirimpettaio arrogante, il fornaio che ti frega cinque centesimi al cartoccio; città è gli sposini timidi, il postino che canta sempre, il collezionista di francobolli. «Città è questo, questo io amavo. E questo oggi non esiste più». Fuori l´aria era tiepida, ma la città era fredda. Sfiatava miasmi umidi dal fondo dalle sue cantine.
Fu allora che Patrizia mi svelò uno dei mirabili segreti della sua città. In via San Martino angolo via dei Lombardi, in piena zona rossa, tra le macerie di altre case, c´era un palazzo quattrocentesco intatto, appartenuto a tale Jacopo di Notarnanni. Ciascuno spigolo mostrava due piccoli gigli in ferro battuto. Erano abbellimenti delle catene antisismiche tese da secoli dentro i muri maestri. Poi vidi che ce n´erano dappertutto in città, seminascosti dai ponteggi. Erano una decorazione, disse Patrizia, ma anche un ex voto. Un simbolo di purezza dedicato alla madonna, perché il terremoto del 1703 era avvenuto il 2 febbraio, giorno della Candelora. Erano stati quei gigli incatenati fra loro a salvare molte parti dell´Aquila nel 2009. Ma vallo a spiegare ai talebani dell´antisismico, invasati da furia risanatrice.
La sera del solstizio venne con grilli, vibrare di luci lontane e respiro di tratturi. Gli uomini senza più città mi avevano adottato, offerto le loro case di ormai definitiva emergenza. Mi sembrava di conoscerli da sempre. Paolo Rosati mi invitò a cena, suonò alla chitarra una delle sue canzoni di nostalgia e la sua compagna Maria Gabriella Ludovici tirò dal forno una casseruola di melanzane ripiene. Poi andammo sulla montagna fino al castello d´Ocre, dove aspettammo il buio a strapiombo sul paese di Fossa e la faglia assassina. Il cielo era arancio e viola. Da lontano, la nebulosa dell´Aquila era ben visibile col suo buco nero al centro. Il castello, già sfiancato dai secoli, era stato beccato in pieno dalle scosse del 2009. Solo un torrione restava. Il resto era un mucchio di massi instabili simili a tibie, scapole e teschi umani. Inciampai, caddi, non riuscii a salirlo. Ocre era la quintessenza dell´Abruzzo. La rovina di una rovina.
La Luna andammo ad aspettarla sulle Pagliare di Tione, un pascolo di quota da cui nessuna luce umana era visibile. Il Sirente navigava come un transatlantico spento in mezzo a milioni di stelle. Solo dalla parte della valle Subequana un tenue pulviscolo dorato ancora resisteva. Vedemmo passare un cervo, una lucciola mi si posò sulla mano destra, svegliammo uno scorpione dietro l´uscio, poi sentimmo il richiamo dei lupi. Nella baita di Paolo c´era solo qualche candela e accendemmo il fuoco nel camino. Poi raccontai delle case del vento di cui l´Italia era piena. Dissi di Paolo, l´amico che per tutta la vita aveva voluto un faro abbandonato per vivere e poi aveva scelto un faro solo per morire. Fu allora che uscì la Luna, dalla parte della Majella, la grande montagna madre, e dentro il mantice dei polmoni sentii gonfiarsi un canto silenzioso d´anarchia e di furore. Diceva: tornatevene aquilani, disobbedite ai divieti. Tornate prima che la città muoia, diventi archeologia. Tornate e riprendetene possesso con le vostre cose, i vostri rumori e i vostri odori. La zona è rossa, ma di vergogna per come viene preclusa ai vivi. Non consentite che le vostre strade diventino terra di cani. Sentite come il luogo vi chiama, come tutti i vostri morti vi chiamano. Non accettate di essere esuli in casa vostra. Non lasciate sole le vostre pietre.
Poi restammo in silenzio, ad ascoltare lo scricchiolio delle stelle.
(13 – continua)
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