Le valli dell’Appennino sono abitate da spettri. Ogni rudere ha i suoi: che siano amanti assassinate o neonati murati vivi. E anche i pozzi non godono di buona fama. Un intero esercito di fantasmi popola quella che fu la Linea Gotica. A conservare la memoria della vecchia linea di difesa, solo un piccolo museo. Lo cura un trovarobe
Le valli dell’Appennino sono abitate da spettri. Ogni rudere ha i suoi: che siano amanti assassinate o neonati murati vivi. E anche i pozzi non godono di buona fama. Un intero esercito di fantasmi popola quella che fu la Linea Gotica. A conservare la memoria della vecchia linea di difesa, solo un piccolo museo. Lo cura un trovarobe
Se volete ubriacarvi di arcano, fate l´Appennino fra Emilia e Toscana. Basterà un fuoco acceso perché qualcuno vi racconti storie. Case di spettri, come quello della bella Elvira assassinata sessant´anni fa a Toiano, fuori Pisa. Strade tipo la Vandelli, tracciata tra Modena e il Tirreno da un abate (Vandelli appunto) che, si narra nei paesi, si uccise dopo aver constatato l´impraticabilità del passo della Tambura sulle Apuane. Interi villaggi svuotati, per esempio Reneuzzi, dove la gente fuggì per paura di un certo Davide Bellomo che aveva ammazzato Antonella, amore non corrisposto. O Vagli, sommerso da una diga, che ogni tanto riemerge spettrale con lo svuotamento periodico del lago. Oppure Casacca, al cui nome molti ancora si segnano, dove l´abbandono è legato alla leggenda dell´amore proibito tra un prete e una suora, da cui nacque un bimbo, ovviamente murato vivo.
Tornando dai marmi di Carrara, me ne andai a colpo sicuro in Lucchesia, nella casa tra gli ulivi di Andrea Gobetti, esploratore di anfratti e gran narratore di penna e di voce. Gli aprii la mappa dei luoghi perduti, che lo ingolosì e diede la stura al racconto. Col miglior Chianti fra di noi, aprì il suo forziere di scoperte. Descrisse tre chilometri di insulti in tardo latino contro Roma e il suo impero, che una legione romana di disertori aveva inciso sulle rocce di un bosco sotto un passo che non posso svelare. Poi passò alle simbologie indecifrabili scalpellate sui muri di un castello longobardo fra Pisa e Lucca, o a certe astruse placconate calcaree con segni che lasciano i passanti stupefatti. Finì con villa Bosniaski, distrutta da un bombardamento alleato, dove il proprietario passeggiava con una tigre al guinzaglio accanto a un pozzo che inghiottiva vittime e sputava leggende.
Finimmo a tarda ora. L´Appennino era una miniera, era pieno di tentazioni. Samuele Bertoncini, giovane e anarchico viaggiatore di ottima penna, mi chiamò da una forra chiamata Pizzonero, tra valli dimenticate di nome Aveto e Boreca. Propose notti in sacco a pelo in posti come il Canale dei ghiacci, che giurò pieni di storie, per salite a vette con panorami inenarrabili e visite a borghi senz´anima viva, dove il tempo s´era fermato come nella “Bella addormentata”. Promise serate attorno al fuoco che avrebbero riempito i miei taccuini vagabondi, ma io avevo la mia Val d´Arda, più volte battuta con soddisfazione, dove i tortellini di Franco Sprega e sua moglie mi attendevano in località San Protaso presso Fiorenzuola, così cedetti alla profferta di un giaciglio più consono ai miei reumi, e alla promessa di storie nuove, di cui i quaderni di Franco erano piene.
L´indomani andammo per colline e subito le storie vennero, in bilico fra cronaca e diceria, esattamente quello che cercavo. A Torre Gazzola c´era una casa dove una donna era stata reclusa dai genitori alla nascita, e dove si narra che i giornalisti, scoperta la cosa, videro oltre una finestra un essere pallidissimo in tunica bianca, capelli fino a terra e unghie attorcigliate dal tempo. Ma Franco voleva mostrarmi la Confina, una casa-fortezza con possedimenti sul fiume, che era stata dei gesuiti e poi trasformata in ospedale-monastero da tale Gaetana Moruzzi, abilissima nel rastrellare denaro e vantare colloqui con Dio. Quando nel 1806 arrivarono i francesi ad abolire i privilegi preteschi, scoprirono negli archivi della Confina libroni di clausole contrattuali di sadica raffinatezza, che strangolavano il mezzadro senza pietà cristiana e senza sconti in caso di carestie. La mia mappa non smetteva di arricchirsi di appunti.
«In classe alle elementari avevo un ragazzino che aveva i genitori alla Confina», raccontò Franco. Il posto non aveva buona fama, c´erano sotterranei con serpenti e un pozzo chiamato Il Taglio, dove si diceva venissero buttati gli indesiderati. «C´erano i pastori transumanti dell´Adamello. Parlavano una lingua impossibile, erano alti, portavano cappellaccio nero e stavano immobili col bastone come guerrieri Masai. Uno si chiamava Ulderico, era blindato nel tabarro e sparava monosillabi in una lingua spietata e sibilante, senza mai schiudere i denti. Le partenze per la montagna, a fine primavera, erano memorabili. La corte si riempiva di mucche e altri animali, i cani abbaiavano, gli uomini urlavano, poi il vecchio partiva, come Mosé, e io guardavo ondeggiare la mandria, preceduta dalle bestie più giovani e veloci, lungo la sponda dell´Arda, fino a quando tutto spariva in un gran polverone, verso Nord».
Volevo tornare a casa, ma l´Appennino non mollava. Nelle valli c´era un altro addensamento di fantasmi. Era quello della Linea Gotica e delle sue sorelle arretrate: la Gengis Khan, la Cesar e altre di nome Loiano e Longhidoro. Ce n´era per un viaggio intero, e un bell´itinerario di attraversamento era segnato su un libro appena uscito, “Tracce della linea gotica”, di Vito Paticchia e Marco Buglione. Lessi che le rovine erano mangiate dal dilagare della boscaglia, ma c´era sempre qua e là una trincea della memoria curata da qualche appassionato. Così l´indomani finii a Livergnano tra Bologna e Firenze, dove Umberto Magnani detto “al ruscaròl”, lo spazzino, aveva trovato tesori ravanando nelle cianfrusaglie e messo su un mini-museo in una grotta che era stata officina di fabbro. «Avevo sedici anni e stavo ripulendo la soffitta – disse – quando trovai una cassa di munizioni. La mamma se ne accorse e disse: guarda che quella è stata la tua culla. Allora mi chiesi che senso avesse buttare quella roba dov´era segnata la mia storia, e cominciai a raccogliere».
Lì intorno erano stati sparati milioni di colpi, e quindi «c´erano migliaia e migliaia di casse come quella». Il passato riemergeva continuamente. Non lontano erano saltati fuori dei nudi femminili scolpiti nell´arenaria dagli americani in un posto chiamato “Sun Valley”. Durante i lavori della Tav in val di Zena c´era stata una misteriosa esplosione di combustibile. Era benzina Shell del 1944, perdita della “pipeline” che da Livorno andava al fronte. Incapaci di fermare l´emorragia, gli Alleati avevano lasciato che la perdita si scaricasse nel sottosuolo.
Diavolo d´una montagna. Non era un luogo, ma un labirinto di luoghi, un sedimento infinito. La traversata finì con un altro cacciatore di memorie, Fausto Marzari, che mi portò a Frassineto, villaggio semi-abbandonato che non era stato né tedesco né alleato, ma una macchia bianca sulle mappe dei generali. Una pazzesca terra di nessuno, uno spazio franco dove nessuno voleva restare. Di giorno passavano le unità scelte inglesi e di notte i Diavoli Verdi tedeschi. I due si fronteggiavano a colpi di Panzerfaust e bidoni di esplosivo rotolati a valle. In mezzo c´era una casa, che per tutto l´inverno del ‘44-´45 rimase abitata. Dopo lo sfondamento, la famiglia (Vallini si chiamava) riemerse dagli scantinati, viva, a guerra finita.
(15 – continua)
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