Affogato nella sterpaglia di un isolotto a nord di Torcello, nella laguna di Venezia, l’ossario di Sant’Ariano ha sempre avuto fama sinistra. Dimora di topi. E di serpenti. Era stato Napoleone a volerlo lì, lontano dal centro urbano. E nel tempo aveva generato leggende d’ogni sorta. Inutile tentare di varcarne la soglia: troppo fitti i rovi a difesa
Affogato nella sterpaglia di un isolotto a nord di Torcello, nella laguna di Venezia, l’ossario di Sant’Ariano ha sempre avuto fama sinistra. Dimora di topi. E di serpenti. Era stato Napoleone a volerlo lì, lontano dal centro urbano. E nel tempo aveva generato leggende d’ogni sorta. Inutile tentare di varcarne la soglia: troppo fitti i rovi a difesa
Quella sera a Venezia cenai da Cristina, la mitica libraia del mare. In fondo a un´androna chiamata Corte Sconta, persa in un labirinto di canali, salii per una scala di pietra fino alla sua casa e aprii sul tavolo la mia mappa dei luoghi perduti. La lampada illuminò le facce attente di altri commensali: Silvio Testa, Cristina Della Toffola e Giorgio Crovato, instancabili cacciatori di segreti lagunari. L´indomani si sarebbero imbarcati con noi per una seconda esplorazione. La notte era stellata e il tempo prometteva bene. La meta era l´ossario Sant´Ariano, affogato nella sterpaglia di un isolotto a Nordest di Torcello. Uno spazio deserto che aveva fama di essere pieno di topi e serpenti. A fine settecento era stato scelto dai napoleonici, quando l´editto di Saint Cloud aveva allontanato i cimiteri dai centri urbani.
In quel mondo che aveva vissuto con raffinata consapevolezza la sua decadenza marinara, era quasi fatale che i cimiteri fossero la chiave di Venezia. E difatti a Venezia i cimiteri erano luoghi normali e niente affatto lugubri. Erano il posto dove la laguna, diventata città, tornava a essere laguna, rifluiva nel liquido amniotico delle origini. Per gli studenti di medicina a caccia di femori, tibie e mandibole, Sant´Ariano era stata meta obbligata. E se nelle isole i contadini trovavano resti umani nei solchi d´aratura, correvano a portarli al parroco, il quale li benediva per portarli a Sant´Ariano. Nelle isole di San Marco le ossa facevano parte del paesaggio, come i conigli selvatici.
Visto che si parlava di morte, il buon Silvio Testa raccontò la storia truculenta di un “luganeghèr”, un salsicciaio del 1400, che in riva de Biasio aveva messo su una locanda di carne, trippe e insaccati. Accadde che nel quartiere cominciarono a scomparire bambini e la polizia si mise a cercare la soluzione del mistero. Un bel giorno accadde che un avventore si ritrovò in bocca il mignolo di un bambino e corse a denunciare il fatto alla Quarantìa. I gendarmi perquisirono il locale e trovarono la dispensa piena di resti umani. “«Il luganeghèr fu squartato in pubblico tra le colonne di Marco e Tòdora e l´osteria fu rasa al suolo», concluse il narratore dopo un sorso di rosso.
Siccome il racconto non ci aveva tolto l´appetito, anche la Della Toffola volle dire la sua e narrò la leggenda del Fondo dei Sette Morti, un posto presso Pellestrina. Sei pescatori con a bordo un novizio avevano visto un corpo gonfio galleggiare nella Laguna, e uno – il novizio appunto – disse che era il caso di portarlo a seppellire. Ma gli altri risposero: «Ma no, làssilo là, tanto no´l parla». Invece il morto parlò. Si sollevo dall´acqua con le occhiaie vuote e pronunciò un tremendo anatema contro quelli della barca, che caddero stecchiti dallo spavento, lasciando allo specchio d´acqua il suo lugubre nome. La Laguna era piena di spiriti. Non c´era isola, barena o canale che non ne fosse abitato.
L´indomani partimmo per Poveglia, un altro isolotto-ospedale deserto, col bragozzo di Cristina Della Toffola. Il campanile sorgeva da una foresta impenetrabile e nella palazzina maggiore lo scalone d´ingresso era crollato per metà. Dovetti arrampicarmi sui ferri, camminando a passi felpati. Tutto era prossimo al collasso e ovunque erano visibili segni di vecchi festini, bottiglie rotte, bicchieri, brandelli di vite altrui. I muri sbrecciati erano coperti di scritte del tipo “Kill”, “Die”, “Fuck”. Esplosioni di nichilismo monosillabico. Intorno all´isola, motoscafi immobili, esausti al sole, timorosi di attraccare. E ancora segni di morte, di quarantene e pestilenze. Lessi su una lapide: “Ne fodias vita functi contagio requiescunt MDCCXCIII”.
Poi il bragozzo puntò a Nord con vento leggero di Bora, oltre il forte di Sant´Andrea e gli orti di Sant´Erasmo, verso il campanile storto di Burano. Fuoribordo l´acqua era verde come di fiume, il paesaggio diventava solitario, il traffico più rado. Attraccammo alla Cura, di fronte a Sant´Ariano, sillabando allegramente citazioni di Josip Brodskij e Hermann Hesse sulla bellezza di Venezia. I cormorani stavano appostati sulle gengive erose della barena e il nostro arrivo spaventò germani reali. Un coniglio filò via come una palla di fucile. Poco lontano, a Tessera, gli aerei sbarcavano e imbarcavano moltitudini, ma La Cura era un eremitaggio perfetto e la vicinanza della morte non ci intimidiva. Mi prese un´improvvisa voglia di essere dimenticato, di diventare sabbia, mare, ossa. Ero nel centro dell´emulsione più segreta della Laguna.
Immensa e lontana oltre i canneti, passò verso il mare aperto una mega-nave da crociera, e pensai che era mille volte morire alla Cura che in mezzo alle migliaia di ospiti di quel penitenziario di lusso. Camminai fra canneti e tamerici in un terreno cosparso di bossoli, fino a una casa di cui era rimasto solo il caminetto e il comignolo. In bilico uno sull´altro, i due pezzi di muratura formavano una scultura verticale visibile a un miglio. A pochi metri pullulava la corrente di una fonte ferruginosa, come se l´acqua e il fuoco si cercassero ancora, attorno alla casa, per strappare all´oblio anime e parole. Poltrimmo sotto un salice, declinammo tutto l´alfabeto della pigrizia, poi le due Cristine ci chiamarono a bordo per il pranzo. Menù: tagliatelle con gamberi e zucchine, un piatto di polipetti e uno di “Schìe”.
Desinammo in letizia, col cimitero a meno di mezzo chilometro. Alcune sorsate di Prosecco suscitarono storie del Casanova a caccia di monache di buona famiglia tra i monasteri delle isole, poi il vento di Bora buttò in Scirocco dolce, la marea cominciò a crescere e una luce color miele scese su tutto. Il mare aveva preso una tonalità pastello. Era tempo di andare a Sant´Ariano. Passammo il braccio di mare che ci separava dall´isola-ossario e prendemmo terra su un pontile sbilenco che era stato per quasi due secoli l´approdo dei trapassati veneziani. In piccolo, mi ricordò l´imbarcadero per le Isole Solovkij nel Mar Bianco, monastero che Stalin aveva trasformato in gulag. Anche lì era un viaggio senza ritorno. Quasi sempre almeno.
L´ossario era protetto da un muretto in mattoni alto non più di un metro e mezzo, che lo cingeva completamente. Oltre non si vedeva che un ginepraio irto di spine e cespugli di more. Saltai oltre con una forbice da giardinaggio, pensando di aprirmi una strada verso l´interno dell´isola. Ma fu inutile. Avrei avuto bisogno di un machete, e forse nemmeno quello sarebbe bastato. I morti si difendevano, respingevano gli intrusi. Oltre lo spineto intravvedevo alcune lapidi, ma era impossibile raggiungerle. Non c´erano serpenti, e nemmeno topi. Bastava la vegetazione a ricacciarmi indietro. “Torna a casa tua” dicevano gli inquilini di Sant´Ariano. Arretrammo in silenzio fino muro, risalimmo in barca. Ci bastò la corrente a riportarci a Venezia.
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