NOVECENTO Una monumentale biografia di Manlio Rossi-Doria per Rubbettino
Dalla vicinanza al Pci negli anni Trenta a una scelta socialista fortemente influenzata dalla cultura liberale Una vita dove l’attività di studioso era sempre integrativa di un impegno politico per dare soluzioni alla «questione agraria»
NOVECENTO Una monumentale biografia di Manlio Rossi-Doria per Rubbettino
Dalla vicinanza al Pci negli anni Trenta a una scelta socialista fortemente influenzata dalla cultura liberale Una vita dove l’attività di studioso era sempre integrativa di un impegno politico per dare soluzioni alla «questione agraria»
Ripercorrere l’avvincente percorso biografico di Manlio Rossi-Doria, economista agrario e uomo politico noto ai più per il suo impegno nei confronti del Mezzogiorno, costituisce una buona occasione per riflettere su temi controversi e quanto mai attuali come il significato del riformismo, il rapporto fra Stato e mercato e l’eredità del meridionalismo. Ora è possibile farlo attraverso i risultati di una ricerca più che decennale condotta da Simone Misiani, il quale, in un lavoro minuzioso e fondato su un ampio spettro di fonti archivistiche, ci restituisce la prima biografia dell’intellettuale meridionalista (Manlio Rossi-Doria. Un riformatore del Novecento, Rubbettino, pp. 722, euro 30).
Nato a Roma nel 1905, Rossi-Doria fu influenzato sin dalla prima giovinezza dall’esperienza politica del padre Tullio, ginecologo e socialista riformista vicino a Bissolati. Dal padre ereditò la consapevolezza di vivere in un mondo perfettibile, anche grazie ai frutti della conoscenza scientifica e all’impegno di una qualificata classe dirigente di tecnici. Come per molti altri della sua generazione, tuttavia, anche per Manlio Rossi-Doria la cesura della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa avrebbe determinato una presa di distanza dalla concezione evoluzionista del progresso che aveva caratterizzato la prima generazione di socialisti. Tale frattura pose all’ordine del giorno il superamento definitivo, seppure in forme e tempi diversi, del vecchio ordine liberale.
Lo stretto contatto con la famiglia di Emilio Sereni favorì l’approdo di Rossi-Doria alla militanza antifascista e l’adesione al partico comunista nel 1927. Il rapporto con Sereni, risalente ai tempi della scuola, proseguì con l’iscrizione di entrambi nel 1924 all’Istituto superiore agrario di Portici. I due amici sarebbero anche diventati borsisti dell’Istituto nazionale di economia agraria (Inea) a partire dal 1928. In quegli stessi anni maturava per Rossi-Doria l’impegno meridionalista, a contatto con l’Animi (Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia). Dal 1925 in poi egli trasse beneficio anche dalla frequentazione di Giustino Fortunato e Benedetto Croce. In questa fase Rossi-Doria interpretò la collaborazione con l’Inea di Arrigo Serpieri e la prospettiva della bonifica integrale voluta dal fascismo come strumenti per favorire una più ampia trasformazione della società in senso collettivistico. Un’idea che non doveva risultare del tutto peregrina se si pensa che in quegli anni tanto Keynes quanto Gramsci e Togliatti riconobbero un’affinità fra le politiche messe in atto dal fascismo e i piani quinquennali dello Stato sovietico.
Per la sua militanza antifascista Rossi-Doria venne arrestato nel 1930. Nei cinque anni passati in carcere proseguì le sue riflessioni in vista di un rilancio della bonifica integrale, recependo anche il contributo di Marc Bloch sulla storia del paesaggio agrario. Nel 1938, ingiustamente accusato di tradimento, Rossi-Doria fu espulso dal Partito comunista. A comunicargli la decisione furono Aldo Natoli e Lucio Lombardo-Radice. Ebbe origine da questo trauma l’avvicinamento di Rossi-Doria agli esponenti della cultura liberal-democratica. Lo strappo definitivo con il comunismo maturò durante gli anni della guerra, e avrebbe avuto come esito la scelta di militare nel Partito d’Azione, di cui sarebbe divenuto dirigente nazionale. Gli intellettuali con cui Rossi-Doria entrò in contatto in questi anni furono tanti. Tra questi Guido Calogero, Leone Ginzburg e Carlo Levi. Nel 1944 assunse un incarico di insegnamento presso la Facoltà di agraria di Portici, riprendendo così la sua carriera accademica.
Rossi-Doria contribuì all’elaborazione della riforma agraria, epicentro del proprio progetto riformatore e tappa decisiva per la sconfitta del latifondo. Anticipata dai decreti Gullo del 1944, essa venne definitivamente varata con la legge del 1950. La posizione rossidoriana, concependo la riforma in senso puramente antifeudale e liberaldemocratico, si scontrò con la diversa impostazione datale dal gruppo dirigente comunista che, alla luce dell’eredità del leninismo, guardava al processo riformatore come passaggio verso un sovvertimento più ampio dei rapporti sociali.
Negli anni che vanno dal centrismo al centrosinistra e anche oltre Rossi-Doria sostenne sempre in minoranza una posizione critica nei confronti delle forme in cui l’intervento pubblico e la programmazione economica si andavano costruendo, polemizzando in particolare con una visione, largamente diffusa, caratterizzata dal centralismo e dallo scetticismo verso le virtù del mercato concorrenziale (una posizione rappresentata ad esempio dalla linea di Amintore Fanfani). Il contributo maggiore di Rossi-Doria alle politiche di intervento pubblico nel settore agricolo è legato al tema della pianificazione regionale. La sua impostazione era tesa a salvaguardare l’apporto proveniente «dal basso» alla programmazione statale. Coerentemente con questa prospettiva, Rossi-Doria prese le distanze anche da quel miope industrialismo che larga applicazione avrebbe avuto nel Mezzogiorno, e guardò con interesse al successivo dibattito ambientalista, senza mai cedere a forme di ostilità verso la crescita economica.
Rispetto alle scelte del Pci Rossi-Doria mantenne per il resto della sua vita una posizione divergente, pur conservando un’apertura al dialogo, favorita anche dal suo rapporto privilegiato con il vecchio compagno Giorgio Amendola. L’obiettivo di lungo periodo di Rossi-Doria, strenuamente perseguito e mai raggiunto, fu la costruzione di un partito di massa riformista e antitotalitario. Su questo terreno egli ricercò un interlocutore politico nel Partito socialista. Dapprima restio a un ingresso nel partito di Nenni, Rossi-Doria sarebbe entrato nel Psi solo nei primi anni Sessanta, divenendo senatore fra il 1968 e il 1975. In seguito avrebbe preso nuovamente le distanze dal partito durante la stagione craxiana. Verso il movimento giovanile del ’68 mantenne un atteggiamento dialogante, nella vana speranza di poter ricondurre quel vasto fermento nell’alveo della cultura riformista democratica. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1988, rivendicò la sua posizione di «antipatizzante socialista», come egli stesso si definì in una lettera indirizzata a Norberto Bobbio nel 1984.
Il lavoro di Misiani è un contributo importante che ci restituisce in tutto il suo spessore il lascito di un intellettuale di primo piano nell’Italia e nell’Europa del Novecento, riportando all’interno del dibattito storiografico il tema del meridionalismo, una pagina spesso dimenticata della nostra storia. L’offuscamento di questa grande esperienza teorica e politica appare oggi tanto più insensato, se si pensa alla centralità che sta assumendo – accanto al tradizionale divario fra nord e sud Italia – una nuova questione meridionale, quella che coinvolge l’Europa e i suoi paesi mediterranei.
Nella sua appassionata ricostruzione Misiani non riesce a dissimulare la propria posizione anticomunista, che inevitabilmente lo porta a vedere soltanto le differenze – pur rilevanti – fra il riformismo concepito da Rossi-Doria e quello sostenuto, più o meno esplicitamente, da socialisti e comunisti, tendendo a leggere il temporaneo approdo rossidoriano al marxismo-leninismo come un semplice incidente di percorso. Nella pur pregevole narrazione di Misiani quello che manca è un adeguato riconoscimento di quanto gli strumenti di programmazione e di indirizzo del mercato predisposti nell’Italia prima fascista e poi repubblicana, e il riformismo stesso, nelle sue varie declinazioni, debbano la loro esistenza proprio all’influsso della pianificazione sovietica e alla presenza di una formazione economico-sociale radicalmente altra rispetto a quella capitalistica. Perché mai altrimenti lo stesso Rossi-Doria avrebbe ammesso una volta, nel 1973, che «non possiamo non dirci marxisti»?
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