L’Unione sovietica nel ’91 non era un paese condannato: Nonostante la crisi • Nonostante la crisiL’Unione sovietica nel ’91 non era un paese condannato: aveva risorse per rimettersi in carreggiata senza passare per l’autodistruzione
Le circostanze del fallito putsch contro Michail Gorbaciov non sono ancora del tutto chiare I putschisti non erano avventurieri assetati di potere. Volevano difendere il Pcus e il sistema sociale
L’Unione sovietica nel ’91 non era un paese condannato: Nonostante la crisi • Nonostante la crisiL’Unione sovietica nel ’91 non era un paese condannato: aveva risorse per rimettersi in carreggiata senza passare per l’autodistruzione
Le circostanze del fallito putsch contro Michail Gorbaciov non sono ancora del tutto chiare I putschisti non erano avventurieri assetati di potere. Volevano difendere il Pcus e il sistema sociale
A vent’anni di distanza, le circostanze del fallito putsch di Mosca contro Michail Gorbaciov ancora non sono completamente chiare, perlomeno non a chi scrive nonostante sia stato testimone diretto dei fatti, dei loro antecedenti e delle loro conseguenze. Né intorno a quel cruciale evento, che segnò la fine dell’Unione sovietica e del suo Partito comunista con qualche mese di anticipo sulla sanzione formale, si è poi discusso troppo a fondo: in generale è passata nel senso comune la visione di un crollo materiale dell’Urss come logico epilogo del «fatale ’89», cioè della fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale. Una sorta di necessità storica riguardante «il comunismo», che prima o poi si sarebbe comunque compiuta e che casualmente si è concretizzata in questo modo particolare.
In alternativa a questa visione storicista, si sono affacciate diverse teorie del complotto centrate sull’immancabile ruolo della Cia: si è sostenuto che il putsch del 19-21 agosto 1991 sia stato solo una cortina fumogena per coprire il «vero» colpo di stato, attuato da Boris Eltsin con l’aiuto occidentale. Teorie che pur basandosi certamente su alcuni elementi reali (è vero che Eltsin ha approfittato del fallito putsch per mettere le mani sulle leve del potere), tuttavia non risultano davvero convincenti fino in fondo e soprattutto non rispondono alla domanda centrale: perché le cose sono andate così? O meglio: perché un monolite enorme come l’Unione sovietica, con il suo onnipotente partito-guida, le sue formidabili strutture statali (anche repressive), il suo sistema sociale così profondamente interiorizzato dalla popolazione, che ancora oggi si dimostra in parte legata alla sua logica, non ha saputo reagire in modo migliore, o quantomeno più efficace, alle minacce che aveva di fronte e ha scelto invece di suicidarsi con l’assurda farsa di un golpe abortito?
La domanda ha anche un’altra variante, forse più precisa: come mai quel partito, quello Stato, quella società, non hanno saputo esprimere una classe dirigente adeguata alle necessità, dandosi dei leader all’altezza dei propri compiti? Una domanda tanto più stringente in quanto le premesse di fondo per uno scenario diverso ci sarebbero state: l’Unione sovietica era un paese con una popolazione mediamente piuttosto acculturata, con ottime università, con una «scuola politica» estesissima, dove negli anni ’80 – contrariamente alla vulgata occidentale che rappresentava l’Urss come un paese grigio e spento – si potevano trovare in abbondanza quadri di altissima preparazione tecnica e persino tanti giovani colti pieni di entusiasmo politico. Eppure, la storia della perestrojka gorbacioviana e del suo fallimento è stata soprattutto una storia di inettitudine e inadeguatezza da parte dell’intera classe dirigente a tutti i livelli, a partire da Gorbaciov stesso, coraggioso, generoso e visionario ma chiaramente inadatto a guidare gli altri e con idee pratiche molto confuse. E proprio gli uomini del golpe, i membri del GKChP («Comitato statale per lo stato d’emergenza», persino il nome e la sigla suonavano ridicoli), in quei tre giorni d’agosto sono stati la più efficace e drammatica rappresentazione vivente di questa inettitudine.
Balbettanti e tremanti di fronte ai giornalisti sia sovietici che stranieri, impauriti e attaccati alla bottiglia nel chiuso delle loro stanze, incapaci di prendere qualsiasi decisione nonché chiaramente privi di un vero piano d’azione che andasse al di là del mero atto iniziale – arrestare Gorbaciov e mandare un po’ di carri armati in giro per le vie di Mosca – quegli uomini erano apparsi subito, a tutti, ridicolmente inferiori al ruolo storico che volevano assumersi. Non meraviglia che il loro progetto sia andato in pezzi fin da subito di fronte alla prima resistenza incontrata, pur assai modesta e più mediatica che militare: un Gorbaciov che rifiuta di firmare il documento sottopostogli, uno Eltsin che chiama a raccolta un po’ di ufficiali a lui fedeli, qualche centinaio di persone in piazza davanti alle telecamere di mezzo mondo.
I putschisti non erano degli avventurieri assetati di potere. Volevano difendere l’Urss, il Pcus e il sistema sociale esistente dalla deriva apparentemente incontrollabile che gli avvenimenti avevano preso in quell’estate del ’91, in particolare per le spinte centrifughe messe in atto dai nazionalisti in molte delle 15 repubbliche sovietiche. Alcuni di loro non erano dei nostalgici stalinisti ma avevano condiviso i progetti riformisti di Gorbaciov, e tutti quanti comunque erano stati portati da lui fino alle cariche più alte. Erano, a tutti gli effetti, la crema della classe dirigente sovietica, e avevano l’appoggio esplicito di moltissimi dirigenti locali, nonché il viatico del referendum che pochi mesi prima aveva visto una schiacciante maggioranza dei cittadini pronunciarsi a favore del mantenimento dell’Urss. Avevano le carte in mano per raggiungere, almeno momentaneamente, i loro obiettivi. Ma hanno sbagliato tutto, mostrandosi stupidi e deboli, in definitiva dei reazionari peggiori del male che volevano curare: hanno distrutto il partito, spaccandolo e privandolo del suo leader naturale nel momento del massimo pericolo; hanno dato corpo e ragione agli ululati dei nazionalisti nelle repubbliche, allarmando le popolazioni non russe e mettendo in posizione insostenibile i leader locali fedeli all’Urss; hanno, soprattutto, tolto alla gente comune ogni residua fiducia nelle capacità dei propri dirigenti, spalancando così la strada al «nuovo», qualunque esso fosse.
Nonostante i numerosi fallimenti delle riforme, la gravità della situazione economica e la crisi dei rapporti tra le nazioni che la componevano, l’Unione sovietica nel 1991 non era un paese condannato: aveva le risorse per rimettersi in carreggiata, sia economicamente che politicamente, senza passare per l’autodistruzione poi impostale dall’alleanza infernale tra nazionalisti e neoliberisti, di gran lunga minoritaria nel paese ma uscita vincitrice senza rivali dalla catastrofe del putsch d’agosto. Il peso della competizione militare con l’Occidente poteva essere molto attenuato, dopo l’89 e dopo i primi accordi di disarmo nucleare; le ricchezze naturali erano ancora enormi così come il potenziale produttivo; i conflitti interni potevano essere gestiti e portare a un utile rinnovamento della struttura statale; c’era ancora molto margine di allargamento delle libertà democratiche e individuali, senza pregiudizio per il sistema sociale. Perché dunque le cose sono andate nel modo peggiore? Perché i dirigenti sovietici hanno marciato di loro iniziativa verso il baratro, trascinandovi tutto il paese?
Forse la risposta sta proprio nella profonda sfiducia che la classe dirigente sovietica quasi al completo nutriva verso se stessa e verso i propri valori: una sfiducia maturata in decenni di disabitudine alla discussione e alla critica, alimentata dal confronto con l’esibito e trionfante benessere materiale europeo da un lato, e dall’altro con l’incrollabile, vincente ostinazione ideologico-religiosa dei guerriglieri afghani. Soprattutto una sfiducia, ampiamente ricambiata, verso la propria gente.
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QUEL TERRIBILE, CONVULSO 1991
4 agosto. Il presidente dell’Urss Michail Gorbaciov parte per le vacanze nella dacia di Foros, in Crimea, insieme alla famiglia. Il ritorno è previsto per il 20 agosto, data in cui si dovrebbe firmare il nuovo Trattato dell’Unione, destinato a cambiare la forma statuale dell’Urss trasformandola in una Federazione di Stati indipendenti.
17 agosto. Si riunisce al Cremlino un gruppo di cospiratori, formato segretamente da mesi, guidato dal capo del KGB Vladimir Kryuchkov e comprendente il ministro della difesa Dmitry Yazov, il suo vice generale Valentin Varennikov, il primo ministro Valentin Pavlov, il vicepresidente Gennady Yanaev, il ministro dell’interno Boris Pugo, il capo del Consiglio di difesa Oleg Baklanov, il capo della segreteria di Gorbaciov Valery Boldin e il segretario del Comitato centrale del Pcus Oleg Shenin.
18 agosto. Un gruppo formato da Varennikov, Boldin, Shenin e Baklanov vola in Crimea e chiede a Gorbaciov di dimettersi lasciando il potere a Yanaev oppure firmare la proclamazione dello stato d’emergenza. Gorbaciov rifiuta e viene messo de facto agli arresti domiciliari, ogni comunicazione interrotta. La delegazione torna a Mosca dove viene formato il Comitato statale per lo Stato d’emergenza (GKChP), nel quale entrano anche due altri ministri, Starodubtsev (agricoltura) e Tyziakov (imprese statali). Il Comitato nomina Yanaev presidente ad interim per la «malattia» che avrebbe colpito Gorbaciov, vieta la pubblicazione dei giornali non appartenenti al Pcus e proclama la volontà di proseguire le riforme.
19 agosto. Dalle 7 del mattino la tv trasmette i proclami del GKChP. Le divisioni corazzate Tamanskaya e Kantemirovskaya fanno il loro ingresso a Mosca. Vengono compiuti alcuni arresti; per motivi mai chiariti non viene arrestato Boris Eltsin, che raggiunge la sede del parlamento russo e organizza lì la resistenza al putsch. Intorno all’edificio si raduna una folla e si erigono barricate. Alcuni ufficiali dell’esercito proclamano la loro lealtà a Eltsin e schierano i loro blindati a difesa del parlamento. I membri del GKChP tengono una conferenza stampa per spiegare quel che sta accadendo.
20 agosto. È il giorno cruciale, e il più misterioso. Viene proclamato il coprifuoco e le unità speciali del KGB, il gruppo Alpha e il gruppo Vympel, con l’appoggio della divisione Dzerzhinskij delle truppe dell’interno, ricevono l’ordine di dare l’assalto al parlamento alle 2 della notte seguente. I comandanti delle due unità speciali cercano di convincere i superiori che l’assalto potrebbe fallire. Verso mezzanotte delle colonne blindate si muovono vicino al parlamento ma vengono bloccate da barricate improvvisate realizzate con autobus e rottami. Tre giovani civili muoiono in circostanze mai chiarite mentre cercano di dar l’assalto ad alcuni autoblindo, poi effettivamente abbandonati dai militari e dati alle fiamme. L’attacco al parlamento non avviene.
21 agosto. Yazov ordina il ritiro di tutte le truppe da Mosca. Il GKChP si riunisce ma non riesce a decidere altro se non di mandare una nuova delegazione da Gorbaciov in Crimea, che ritorna nella notte con il presidente e la sua famiglia. Nel frattempo la situazione precipita e viene presa in mano dagli uomini di Eltsin.
22 agosto. Tutti i cospiratori vengono arrestati, Pugo si suicida. Eltsin scioglie tutte le amministrazioni regionali russe che si sono schierate con i golpisti.
24 agosto. Gorbaciov si dimette dalla guida del Pcus.
25 agosto. Un decreto di Eltsin nazionalizza tutte le proprietà del Pcus in Russia, compresi gli archivi storici del partito.
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