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Il canto dei naufragati

 Lavezzi, un’isola deserta nel mare senza pace delle bocche di Bonifacio. Qui nel 1859 si schiantò la fregata francese “Sémillante”. E i corpi dei marinai si sparsero in tutta l’area Quegli scogli divennero temutissimi. Crogiolo di paure e leggende. Come quella del verso dei gabbiani che in certe notti si trasforma in ode nuziale. Annuncio di tempeste. E di sciagure 

 Lavezzi, un’isola deserta nel mare senza pace delle bocche di Bonifacio. Qui nel 1859 si schiantò la fregata francese “Sémillante”. E i corpi dei marinai si sparsero in tutta l’area Quegli scogli divennero temutissimi. Crogiolo di paure e leggende. Come quella del verso dei gabbiani che in certe notti si trasforma in ode nuziale. Annuncio di tempeste. E di sciagure 

Quel pomeriggio il vento calò. Era quanto speravo. Una finestra di quiete forse si apriva nel mare senza pace delle Bocche. Volevo raggiungere Lavezzi l´indomani, nello spazio navale francese, e un bravo marinaio era già stato allertato per la traversata nel porto della Maddalena. L´isola, deserta e acuminata, era stata tomba di molti marinai. L´amico Paolo, nella sua mappa dei luoghi perduti, l´aveva indicata con un nome che conoscevo: “Sémillante”, quello di una fregata francese che nel 1859 era andata a schiantarsi su quelle rocce facendo morire quasi ottocento marinai. Storia maledetta, che avevo letto una quarantina di anni prima in un mirabile racconto di Alphonse Daudet.
Nessuno si salvò, quel giorno, e i resti umani di marinai e soldati (la nave era in rotta per la guerra di Crimea) si sparsero in tutte le Bocche di Bonifacio, e più lontano ancora, fino in Gallura. Ciò che rimase dei corpi venne sepolto in due piccoli cimiteri sul luogo dell´affondamento, a Lavezzi appunto, e io lì volevo andare, per sentire la voce dei naufragati. I marinai della Corsica e della Sardegna conoscevano bene quel richiamo, mi disse quel pomeriggio una donna incontrata in casa dell´ex sindaco della Maddalena, Mario Birardi, un gentiluomo d´altri tempi. L´incontro avvenne in mezzo a carte nautiche e mirabili esemplari dell´Illustrated London News contemporanei dell´impresa dei Mille.
Francesca Sanna – così si chiamava – mi disse del timone rotto della fregata francese, del vento spaventoso e del tremendo schianto nella nebbia. E disse del canto ultraterreno di certi gabbiani, la Berta minore e la Berta maggiore. Un canto nuziale, simile al pianto di un neonato. «Si dice – raccontò – che il giorno della “Sémillante” gli uccelli si lamentarono come non mai e la notte dopo un pastore rischiò di impazzire a sentirli. Da allora quel grido è diventato annunciatore di naufragi». Francesca diceva la sua storia tenendo la mano su un vecchio libro aperto su un´incisione. Mostrava Garibaldi in una battuta di pesca alla lampara, e per un attimo il fuoco di lentischi sulla barca sembrò illuminare anche il viso della narratrice.
Il discorso continuò a cena, alla scuola velica di Caprera, dopo un preludio di vino toscano, formaggio di capra e pane pistoccu. Gli allievi di primavera erano quasi tutti vecchie rughe esperte, il vento di quel giorno li aveva ubriacati come un gas esilarante, così quando tirai fuori “Mlp”, la mappa con le case degli spiriti, e a Nordest della Sardegna i commensali lessero la parola “Sémillante”, le storie cominciarono a fioccare. Naufragi, traversate, nebbie funebri e maestralate abrasive. Tutti avevano qualcosa da dire sulla temutissima Lavezzi. Qualcuno, che ci aveva dormito all´ancora, disse: «Quella notte tutti scherzavamo, ma tutti avevamo paura». Tirammo tardi, in una festa di grilli.
L´indomani Antonello Piras era lì, puntuale alle otto, con la sua pilotina, vettovaglie, vino fresco in cambusa e due amiche emiliane, Sole e Valentina. Disse che il grecale mordeva ancora nelle Bocche e la traversata poteva essere ballerina. Doppiammo lo scoglio della Guardianìa, ci districammo in un dedalo di isolotti, costeggiammo le vecchie postazioni d´artiglieria di Spargi, poi fu mare aperto con rotta a Nord-Nord-Ovest verso le rocce calcinate di Bonifacio. Le onde erano sempre più alte, tutta l´acqua tra l´Elba e Civitavecchia, spinta dal vento, sembrava imbottigliarsi in quel collo d´oca. Il motoscafo schizzava in alto, ripiombava giù, e noi dovevamo aggrapparci a tutte le maniglie possibili.
«Ci sono giornate migliori per Lavezzi», disse lapidario il buon Piras smanettando il timone negli avvallamenti tra le ondate. Il mare, forza sette, spingeva duro, aveva una spinta inerziale superiore al previsto, ma si andava lo stesso, e l´isola alfine emerse dalla buriana. Pareva un grumo di lapidi in rovina, un crollo ciclopico come i templi di Selinunte. Oltre il faro rosso di Lavezzi, solitario ed eroso dai frangenti, l´isola si delineò come lo scheletro di un massiccio capodoglio. Sul lato Sud il mare era tranquillo e, in un turbine di gabbiani, buttammo l´ancora in una baia a due passi dalle rocce del naufragio, sospesi su un mare brulicante di pesci.
A terra, le ossa del leviatano di pietra avevano ogni forma possibile: teschi e femori, costoloni, vertebre. E in quel dedalo cimiteriale si era infrattata, segnando una miriade di sentieri, una sabbia granulosa e brillante portata dal vento. Il cimitero degli ufficiali era a pochi metri dalla baia. Uno schieramento di lapidi chiuse da un muretto e slavate dalle intemperie. Solo la tomba del capitano era leggibile. Stava scritto:
“Gabriel
mon cher fils
ta mère
ta femme et tes soeurs”
tua madre, tua moglie e le tue sorelle «vorrebbero deporre sulla tua tomba la testimonianza del loro dolore. Per trent´anni hai navigato lasciandoci nell´inquietudine, ma ogni ritorno era la gioia. Speravamo per te. E invece tutto è finito in questo funesto naufragio».
Il posto era punteggiato di fiori gialli e subito mi chiesi come l´orrore potesse trasformarsi in una simile bellezza. Cercavo le voci, quel biancheggiare come di ossa riportava fatalmente alle sirene mangiatrici di uomini, ma gli uccelli ostinatamente tacevano. Anzi, sulla tomba della “Sémillante” era sceso un silenzio leggero. Piras brontolò: «Lavezzi va vista d´inverno, magari con la pioggia. Il mare si vive d´inverno. In quella stagione è tutto mio. D´estate, invece, è cosa di tutti».
Fu allora che sentimmo un canto. Due, forse tre voci femminili. Venivano dalla superficie dell´acqua, in direzione di una cala protetta da scogli, sul nostro stesso versante dell´isola. Era un piccolo coro di donne, ma non si vedeva anima viva. Noi non fiatavamo, in attesa dello svelamento. Poi le sirene apparvero, erano quattro giovani che si erano tuffate da una vela francese – l´unica barca nei dintorni – e ora nuotavano nel mare di primavera. Distinguemmo solo alcune parole.
“Le vent, le vent, le vent..
le vent de la vie…de l´esprit”
Nuotarono sospese in una bolla senza vento, ci girarono attorno ignorandoci, poi scomparvero. E quando il canto tacque, ebbi come la certezza che se anche il mare e il Mistral avessero piallato l´isola e i suoi cimiteri, se anche le Berte annunciatrici di sventura si fossero estinte, la voce del luogo sarebbe rimasta egualmente lì, rintanata nel nome.
«Lavezziiiii!».
La sera, dopo un ritorno burrascoso, gridai quella parola verso il mare. Mi risposero tutte le isole intorno.

(3 – continua)

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