I tre giorni che sconvolsero l’Urss e quei tank impantanati nel traffico

Vent’anni fa il golpe a Mosca: nulla funzionò ma cambiò la Storia. La festa per il mio compleanno nell’appartamento di Kutuzovsky Prospekt era andata avanti fino a tardi, in quella domenica 18 agosto di venti anni fa.

Vent’anni fa il golpe a Mosca: nulla funzionò ma cambiò la Storia. La festa per il mio compleanno nell’appartamento di Kutuzovsky Prospekt era andata avanti fino a tardi, in quella domenica 18 agosto di venti anni fa.

Saranno state le 4 del mattino, quando con Stephane Bentura, reporter d’assalto della France Presse, avevamo riaccompagnato a casa alcune amiche russe. Tornando, avevamo parlato della settimana che ci attendeva. L’indomani Gorbaciov sarebbe rientrato dalla dacia di Foros, in Crimea. Due giorni dopo, il 20, era in programma la firma del nuovo Trattato dell’Unione. Non sembrava un carico di lavoro eccessivo. Forse avremmo potuto rubare una mattinata, grazie alle due ore di fuso orario con l’Europa, per andar fuori città alla spiaggia di Nikolina Gora e fare il bagno nella Moscova.
Le strade apparivano tranquille. Il traffico notturno era scarso e come sempre velocissimo. Nulla che facesse presagire cosa si stesse preparando. Ma quando entrai in casa, erano già passate le 6, il telefono stava squillando. Era la Radio Svizzera: «Hai sentito? C’è un golpe a Mosca, hanno arrestato Gorbaciov». Non pensai neppure per un attimo a uno scherzo. Appena il giorno prima avevo scritto un articolo, riprendendo un’intervista alla Novosti di Alexander Jakovlev, l’architetto della perestrojka da poco dimessosi dal partito: «Il Pcus destituirà Gorbaciov», aveva ammonito. Solo che sembrava un avvertimento a futura memoria, anzi indicava anche una data: novembre, il XXIX Congresso del Partito comunista. Però ero stato fuori tutta la notte e non avevo alcun riscontro visivo. Dov’erano i carri armati? E i posti di blocco? Accesi la radio e mi resi conto che leggevano dei comunicati. Chiamai Natasha Petrovna, la nostra storica interprete. Era già sveglia: le dissi di annotarsi tutto e poi di precipitarsi all’ufficio del Corriere. Provai a telefonare a Milano, in Italia erano ancora le 7, a casa di Livio Caputo, il caporedattore agli Esteri, per dargli la notizia. Pensavo che la linea internazionale fosse già stata tagliata, invece funzionava ancora. Era la prima stranezza di quel putsch.
Poi rotolai verso la strada. Il cortile del Kutuzovsky pullulava di giornalisti, vivevamo tutti nel compound. Con Fabio Squillante, uno dei corrispondenti de La Stampa, prendemmo la macchina dirigendoci verso Rubliovski Chaussée. E lì, alla periferia della città, vedemmo i carri. Un’immagine surreale: stavano in fila indiana, impantanati nel traffico cittadino del lunedì mattina, avanzavano lentamente, ostacolati da ingorghi di automobili, camion, autobus. Come se la città fosse indifferente e proseguisse il suo tran tran. Tra suoni di clacson e sferragliare dei cingoli, il rumore era infernale. La lunga colonna appariva spezzata in più punti, alcuni blindati rispettavano addirittura i semafori. Avremmo appreso solo dopo che la divisione Tamanskaya era stata svegliata nella notte, in fretta e furia, l’ordine di occupare la capitale era partito tardi. Ma già in quel momento, fu fortissima l’impressione di una cosa molto raffazzonata, caotica, mal preparata. Solo dopo le 10 le truppe corazzate raggiunsero le postazioni loro assegnate.
Tornati in città, le notizie ci travolsero. Verso mezzogiorno conoscemmo finalmente i nomi dei golpisti, che avevano formato il Comitato d’Emergenza, la banda degli otto che aveva destituito Gorbaciov isolandolo dal mondo a Foros, proclamato lo stato d’assedio, reintrodotto la censura, chiuso i giornali della glasnost: il capo del Kgb, Krjuchkov, probabilmente l’anima del complotto, poi il ministro degli Interni Pugo, quello della Difesa il vecchio generale Jazov, il premier Pavlov, il vice-presidente Janaev promosso presidente ad interim e tre figure minori, i deputati Baklanov, Tizjakov e Starodubtsev che garantivano per l’industria militare, statale e per i contadini. Altri personaggi avevano invece ruoli di primo piano nella congiura: il presidente del Parlamento Lukjanov; il capo delle forze di terra, il maresciallo Varennikov, il generale del Kgb Plechanov, responsabile della sicurezza di Gorbaciov; il capo dello staff del Cremlino, Boldin e quello del segretario del Pcus, Shenin. Era una lista di facile lettura: l’intero fronte conservatore, i duri del regime comunista che tentavano l’ultima, disperata partita per silurare la perestrojka.
Ma qualcosa non stava funzionando, anzi nulla stava funzionando. Il leader dell’opposizione, Boris Eltsin, non era stato arrestato. Il gruppo Alfa, la squadra speciale del Kgb incaricata di catturarlo nella dacia di Arckhangelskoje, non aveva obbedito agli ordini. E a mezzogiorno il presidente della Russia era già a Mosca, nella sede del suo Parlamento, che fece aprire ai giornalisti per un’improvvisata conferenza stampa. Poi uscì e salì su un carro armato per leggere il suo appello ai russi a resistere e opporsi al golpe, mentre una babushka inginocchiata a pochi metri ripeteva come in una litania: «Ia verju Eltsinu», ho fede in Eltsin.
Lungo le strade si formavano i primi cortei, mille, cinquemila, diecimila persone, un fiume in piena di gente che si muoveva intorno ai carri armati e tempestava di domande i soldati. Sorgevano le prime barricate. «Sciopero generale» era la parola d’ordine. E uno slogan profetico, qualcosa che nessuno aveva mai osato dire, il segnale che il mondo cominciava a capovolgersi: «Processate il Pcus». Non si avevano notizie di Gorbaciov, chiuso e guardato a vista nella dacia in Crimea insieme ai suoi familiari. Era successo tutto il giorno prima, domenica pomeriggio. Una delegazione di golpisti era andato a trovarlo. Avrebbero voluto fargli firmare i decreti dell’emergenza e costringerlo a dimettersi. Si era rifiutato. «Se ne andarono seguiti dalle mie invettive», ha detto a Fiammetta Cucurnia su La Repubblica pochi giorni fa. In verità li aveva mandati sonoramente a quel paese, soprattutto Varennikov, il più assatanato e aggressivo: «Generale, se lo pigli nel culo», gli aveva detto Gorbaciov.
La conferenza stampa dei golpisti fu la conferma che avevano sottovalutato la situazione, nessuno di loro capiva quanto la perestrojka avesse cambiato il Paese e il putsch puzzasse di velleitarismo e improvvisazione. Ma i giornalisti russi erano giustamente titubanti. Noi, con le spalle coperte, più baldanzosi. Janaev spiegò confusamente che Gorbaciov stava male, aveva bisogno di riposo. «Dov’è Michail Sergeevich?», attaccò Carol Bogert di Newsweek. Giulietto Chiesa fece due domande, la seconda era una coltellata: «Come sta in salute signor Janaev?». Quello non colse l’ironia velenosa e rispose con una volgarità: «Mia moglie dice che sto bene». Quindi toccò a me. Chiesi dove fosse il certificato medico che attestava la malattia di Gorbaciov. Poi non so cosa mi successe: «Visto che avete proibito i partiti, chiuso i giornali e imposto la censura, avete per caso chiesto consiglio al generale Pinochet?». I colleghi russi applaudirono. Janaev fece una smorfia. Il portavoce, un grigio funzionario che aveva preso il posto di Vitaly Ignatenko, fedelissimo di Gorbaciov, urlò che quella non era una farsa. La conferenza stampa finì senza aver convinto nessuno. A sera le nostre domande erano scritte sui cartelli dei giovani davanti alla Casa Bianca. Ci sarebbero voluti ancora tre giorni perché il golpe rosso fallisse miseramente, lasciandosi dietro tre ragazzi uccisi nell’unica battaglia di quelle ore e perché Gorbaciov facesse ritorno a Mosca, salvo ma ormai delegittimato e travolto dagli avvenimenti. Meno di una settimana dopo, il Partito comunista dell’Urss veniva abolito. Quasi in linea con la profezia di Nostradamus, l’incubo era durato 73 anni e dieci mesi.

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