I fiori purpurei della vendetta

MONDO IN NOIR
Un morto sul lavoro. Un processo che assolve tutti, meno il Giuda di turno che per viltà  rompe il patto di amicizia con l’amico saltato in aria per risparmiare. Un tradimento che può essere emendato portando distruzione e morte nella fabbrica

MONDO IN NOIR
Un morto sul lavoro. Un processo che assolve tutti, meno il Giuda di turno che per viltà  rompe il patto di amicizia con l’amico saltato in aria per risparmiare. Un tradimento che può essere emendato portando distruzione e morte nella fabbrica
Aveva atteso che il crepuscolo sfumasse i colori di ogni cosa e che le prime luci si accendessero. Aveva lasciato scorrere lo sguardo in ogni direzione. Nessuno. Le telecamere in quel punto gli garantivano un indispensabile angolo cieco.
Con un respiro profondo aveva scacciato le ultime resistenze.
Una voce dentro di sé gli aveva ripetuto per l’ennesima volta di non andare.
«Devo», aveva risposto con tutta la risolutezza che aveva.
Si era arrampicato, e con le tenaglie aveva creato un varco nel filo spinato. Pochi minuti dopo era già dall’altra parte della recinzione.
Un altro rapido sguardo intorno. Dalla borsa aveva tirato fuori una tuta da lavoro e un elmetto e li aveva indossati.
Tutto troppo facile. Si era incamminato dimenticando in fretta quel pensiero che portava inquietudine.
Un rumore improvviso gli aveva tagliato il fiato. Si era appiattito contro il muro, in attesa.
Nulla. Tranne il battito del cuore.
Poi, lentamente, aveva recuperato il controllo. E i suoni ciclici della fabbrica erano tornati a riempire le sue orecchie.
Fallimento. Rinuncia. Paure che doveva sputare via a ogni respiro. Aveva deciso di lasciarsele alle spalle, riprendendo a camminare. Sarebbe arrivato fino in fondo. Non aveva più alternative.
Era certo di aver organizzato tutto nel migliore dei modi. Aveva già vissuto quel momento centinaia di volte nella sua testa. Sapeva cosa c’era da fare con estrema precisione. Conosceva quei luoghi alla perfezione. Dopo quella sera, nulla sarebbe mai più stato come prima. Soprattutto in quello stabilimento. L’avrebbero ricordata a lungo. E la paura avrebbe segnato i loro pensieri. Per sempre.
Adesso stava percorrendo una strada deserta e polverosa. Il vento gli soffiava contro il tanfo della fabbrica. Quell’odore. Per un attimo ebbe quasi nostalgia. Ma non era lì per coltivare ricordi. Da lontano sentì il rumore di una macchina avvicinarsi. Si nascose. Una piccola utilitaria aziendale lo sorpassò per scomparire dentro una nube di polvere lungo uno sterrato interminabile. Aspettò che tutto si fosse quietato prima di tornare in strada. Non provò neppure a capire da che parte fosse andata. L’importante era che non costituisse più alcun pericolo per lui. Le sue mosse si fecero ancora più prudenti. Svoltò qualche metro più avanti. Lo spazio davanti a lui era poco illuminato, esattamente come lo ricordava. L’aveva scelto proprio per quel motivo. Accelerò il passo.
Raccolse il fiato e partì, in apnea. Si accucciò dietro un cassone d’olio. In quel punto non passava quasi mai nessuno. Portò una mano sul fianco. L’arnese era sempre lì, pronto a essere usato.
Guardò in lontananza, oltre le ombre dell’impianto, verso il varco da cui si era introdotto. Aveva percorso solo poche decine di metri. Eppure aveva l’impressione di essere là dentro da ore.
Si infilò in un viottolo angusto coperto dai tubi che correvano paralleli. Alcuni erano ricoperti da una patina rugginosa, altri apparivano lerci e consumati dal tempo e dalla scarsa manutenzione. Aggirò con lentezza una pozza scura e marcescente che si era formata per terra. Non poteva rischiare di lasciare alcun tipo di impronte.
Da qualche parte una valvola modulava un sibilo in toni lugubri. Il rumore incessante dei motori faceva da sottofondo. Ad ogni passo lo sentiva sempre più vicino.
La strada lo condusse in un corridoio ampio e illuminato. Si fermò di scatto. Tornò immediatamente a nascondersi nell’ombra. Un operaio, in piedi, a circa venti metri.
«Merda», pensò.
Guardò l’orologio. Troppo poco tempo per permettersi indecisioni. Non poteva indugiare. Decise d’istinto. Avrebbe cambiato percorso.
Uno sbuffo di vapore lo avvolse all’improvviso. Nella nuvola bianca e multiforme che si era levata gli sembrò di intravedere il profilo di un volto sfigurato. Scosse la testa per scacciare quel fantasma e si gettò deciso attraverso quella nebbia tiepida. Stavolta infilò un passo dietro l’altro, senza più alcuna esitazione. Si fermò solo una volta giunto alla fine dell’impianto.
Dritto davanti a sé vide comparire la propria meta. Sulla destra, a qualche centinaio di metri di distanza, il passato. Tutto riaffiorò nella sua memoria, fotogrammi gonfi e deformi come cadaveri che tornano a galla dopo mesi. Ancora più spaventosi.
L’esplosione sorda.
Il corpo che viene sbalzato lontano.
Cade nel vuoto.
Si schianta a terra.
Le ossa che si frantumano.
L’odore acre della carne bruciata.
La chiazza di sangue che si allarga sull’asfalto rovente.
Gli occhi vitrei inchiodati per sempre al terrore assoluto.
Da quel giorno non era più riuscito a mangiare carne, e il puzzo del maiale gli era divenuto insopportabile.
Sentì il respiro farsi rigido, le gambe ghiacciare, il pianto in agguato. Si passò le mani tremanti sul volto. A fatica si impose di calmarsi, cacciando in gola un rovo di respiri. Poi, finalmente, riprese a camminare.
Aprì piano la porta di servizio, la via d’accesso al piano terra dell’edificio. Nessun rumore. Entrò, rimanendo per alcuni minuti nascosto tra le ombre del sottoscala per consentire agli occhi di abituarsi alla penombra. E per sincerarsi che nessuno stesse arrivando in quella direzione. Decise di riprendere a muoversi dopo un’eternità. O forse dopo pochi istanti, non lo sapeva bene neppure lui.
Salì la prima rampa di scale. La porta era aperta, come si era aspettato. Nell’androne una guardia giurata chiusa dentro un gabbiotto di alluminio e plexiglass perdeva tempo su Facebook. Ne approfittò; svoltò rapido verso il pianerottolo e continuò la salita. A ogni gradino si sentiva più determinato; per ogni passo, riscopriva un buon motivo. Per essere arrivato fin lì. Per non essere fuggito.
Aver risparmiato sulle manutenzioni.
Ora era pronto ad arrivare fino in fondo.
Aver risparmiato sulla sicurezza.
A qualunque costo.
Aver risparmiato sulla dignità delle persone.
Per scoprire quale sapore avesse la vendetta.
Non aver rispettato la vita del suo migliore amico.
E ancora su per quelle scale. Lungo quei corridoi. Davanti a una porta, infine. Davanti a quella porta. Con la sinistra, abbassò di scatto la maniglia. Tutto sarebbe finito, finalmente. Tutto.
Anche gli incubi.
L’ufficio era arredato sobriamente. Dietro la scrivania, un uomo in abito grigio e cravatta sollevò distrattamente lo sguardo nel sentire la porta che si apriva. Sul suo volto, l’irritazione iniziale sfumò rapidamente in stupore. Quell’uomo sulla porta apparteneva a un tempo che a entrambi parve troppo lontano e assurdamente ancora troppo vicino. Un passato che lui sperava fosse archiviato per sempre. Non ebbe il tempo per domandargli cosa volesse. Il calcio di una pistola si abbatté con ferocia sul suo viso, scaraventandolo giù dalla poltrona presidenziale.
«Buonasera, signor direttore».
Sputò quelle parole con odio. Si chinò, afferrò i capelli del dirigente e tirò con forza, per sollevargli la testa all’altezza del proprio viso. Lo vide sanguinare copiosamente da un profondo taglio sulla guancia sinistra.
Sorrise. Finalmente.
Tolse la sicura e premette la pistola sulla tempia di quello che era stato il suo capo. L’uomo rispose con un sussulto scomposto.
«Credevi di passarla liscia, eh?».
«Io…».
«Zitto. Se fiati ti ammazzo. Non me ne frega un cazzo di quello che hai da dire. Avresti dovuto parlare al processo, adesso è troppo tardi. Ne siete usciti puliti, eh? Per voi si è trattato solamente di un piccolo guasto a un ingranaggio, no?». Gli sputò in faccia. «Quanto ci avete messo a sostituirlo? Una settimana?».
Aveva covato quella rabbia per settimane, mesi, anni. Quella stessa rabbia ora gli incrinava la voce. L’uomo a terra sentì la paura esplodergli dentro. Una chiazza umida si allargò sotto di lui sollevando un tanfo acido di piscio.
«Non mi sembri più così sicuro di te, direttore. Quell’ingranaggio era molto più coraggioso di tutti voi messi insieme. È bruciato vivo prima di cadere da quaranta metri di altezza. Sai quanto dura un volo di quaranta metri?». Si zittì, come se i pensieri avessero avuto il sopravvento. Tre secondi. Li aveva contati e ricontati. La mano cominciò a tremargli. Lottò per non perdere il controllo. A terra, in preda al terrore, il dirigente provò disperatamente ad approfittarne.
«Posso… posso darti tutto quello che vuoi» balbettò.
«Cosa credi di potermi offrire? Per coprire la morte del mio migliore amico mi sono beccato due anni. Tu sei stato promosso. Il tuo capo, anche. Mi vorresti pagare, direttore? Io, ho dovuto pagare. Per tutti. Adesso sono venuto a ringraziare, figlio di puttana».
Si alzò nuovamente in piedi e gli sferrò un calcio alla testa. E poi un altro, e un altro ancora. Per ogni colpo c’era qualcosa che si era rotto e che non sarebbe tornato mai più come prima. Irreversibilmente. In ogni calcio c’era il bisogno di produrre altrettanta distruzione. Gli occhi gli si riempirono di lacrime mentre tentava di esorcizzare il proprio dolore infierendo su quel corpo in agonia.
Il direttore perse il controllo delle viscere riempiendosi di merda.
«Ecco cosa sono quelli come te».
Lo sentì gorgogliare una parola.
«Basta».
Ma a lui non bastava. Si fermò, il respiro corto e il petto stretto in una morsa. Appoggiò il dito sul grilletto della pistola e prese la mira.
«Mi avete offerto di tutto e non volete neppure un ringraziamento? Eppure siete stati così generosi quando si è trattato di salvarvi il culo. Dei veri benefattori. Un lavoro nuovo. Un mucchio di soldi. Una casa che non avrei mai potuto permettermi. Tutto quello che un uomo possa desiderare dalla vita. In cambio dovevo solo stare zitto e prendermi ogni colpa. Eravate davvero convinti fosse così facile comprarmi, stabilire il prezzo della dignità di un uomo?».
E questo è per avermi rubato il sonno e la ragione.
L’ultimo gradino. Il dito affondò, compiendo la sua missione.
Nei suoi pensieri una pallottola esplose infilandosi nella schiena del suo capo.
Nei suoi pensieri, e solamente lì.
* * *
Riaprì gli occhi e distese i pugni che aveva tenuto serrati fino a sanguinare. Sui palmi restarono i segni profondi delle unghie. Aprì le dita bianche ed esangui, lasciandole libere di sfiorare delicatamente le lettere di ottone che componevano il nome. Una a una. La lastra di marmo era fredda al tatto. Giunte sulla foto, le dita si rilassarono schiudendosi in una carezza. Come petali.
Poi, con un lungo sospiro, si voltò, raccolse un mazzo di fiori e lo depose sotto la lapide. Qualcuno una volta gli aveva spiegato che in ogni fiore era nascosto un significato. E che quello delle peonie era la vergogna.
Così aveva scelto proprio quei boccioli bianchi striati di rosa.
«Eravate davvero convinti fosse così facile comprare la dignità di un uomo?».
La domanda risuonò ancora una volta.
La risposta era veleno che uccide lento.
Chinò il capo, sentendosi come Giuda nell’orto del Getsemani.
* Collettivo Sabot
(I precedenti racconti sono usciti il 3 e il 4 agosto)

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AUTORI

Ciro Auriemma è nato a Cagliari nel 1975. Ha esordito con il romanzo-inchiesta «Perdas de Fogu» (edizioni E/O) insieme a Massimo Carlotto e al collettivo Sabot, a cui è seguito il romanzo «Sette giorni di maestrale» pubblicato all’interno del volume «Donne a perdere», (Edizioni E/O). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su «Il manifesto» e «Micromega».
Renato Troffa è nato a Cagliari nel 1976. Ha esordito partecipando al romanzo «Perdas de Fogu» (Edizioni E/O, 2008) a cui è seguito «Sette giorni di Maestrale», inserito nel trittico noir «Donne a perdere» (Edizioni E/O, 2010).

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