Gesta picaresche per convivere con il presente

La prima volta che mi sono trovato Il soffione boracifero di Alexandro Sabetti (Casa editrice Kimeik, pp. 314, 16 euro) tra le mani, sfogliandolo distrattamente ho pensato: «Che lavoro sgangherato… finalmente qualcosa d’originale». Ma è addentrandosi tra le pagine che una malia sorniona da narrazione prende inesorabilmente il lettore. A chi apprezzi la contaminazione tra linguaggi diversi, questa prova narrativa dovrebbe far gola.

La prima volta che mi sono trovato Il soffione boracifero di Alexandro Sabetti (Casa editrice Kimeik, pp. 314, 16 euro) tra le mani, sfogliandolo distrattamente ho pensato: «Che lavoro sgangherato… finalmente qualcosa d’originale». Ma è addentrandosi tra le pagine che una malia sorniona da narrazione prende inesorabilmente il lettore. A chi apprezzi la contaminazione tra linguaggi diversi, questa prova narrativa dovrebbe far gola. Essa è come un epicentro vuoto, o un perno di rotazione, intorno a cui girano, in maniera vorticosa, pezzi di una realtà improbabile quanto sorprendente. L’impressione del lettore è che nulla sia previsto in anticipo, che tutto appaia possibile – dalle prime pagine all’epilogo finale – attraverso una serie slabbrata di vicende paradossali, di immagini eccessive, di passaggi inattesi.
Il tutto condito di frequenti invenzioni letterarie, preziose quanto meno appariscenti, quanto meno esibite come tali, presentate anzi con la massima naturalezza, quasi elementi oggettivi in cui l’autore s’imbatte, senza mai dare l’impressione di essere egli stesso a crearle. La sensazione che così si determina è che l’intero viluppo della storia, per la sua assoluta contingenza, potrebbe volare lontano o essere risucchiata in un vortice senza direzione. In realtà, dal punto di vista dello scrittore, le cose non stanno affatto così. Nonostante l’apparente noncuranza con cui procede, cui corrisponde l’assoluta contingenza di eventi lasciati a loro stessi, l’autore ne controlla lo sviluppo, in una sapiente alternanza di registri bassi e di citazioni colte, sempre sobriamente dissimulate al lettore e, infine, anche a se stesso.
Vicino a una sensibilità surrealistica, ma anche, per altri versi, al romanzo picaresco, non lontano, stilisticamente, da certe esperienze francesi contemporanee, come ad esempio alcuni romanzi di Queneau e anche a certi esercizi di Pennac, il racconto di Sabetti si segnala per un andamento veloce, un ritmo intenso, che minaccia di trascinare il lettore nella sua stessa corsa ad ostacoli, con il rischio di farlo ruzzolare tra giri di frasi e blocchi di parole apparentemente sconnesse. Solo apparentemente, però. Perché pur nell’indeterminatezza di luoghi e tempi non definiti, traspare evidente il richiamo ad una situazione attuale che rimanda alla trama politica, essa stessa sempre sospesa tra dramma e commedia, furbizia e volgarità, del nostro Paese. Il richiamo a momenti della storia del Partito comunista italiano, o alle sue protesi successive, ma anche il riferimento, certo inattuale, a ipotetiche invasioni naziste (come potrebbero essere immaginate, per esempio, in un film di Tarantino), apre una prospettiva inedita, proprio perché del tutto fantastica, nei confronti di una realtà a volte più fantastica, o incredibile, della stessa fantasia.
Giocando tra registri contrapposti – sul piano della narrazione e su quello del lessico – Sabetti riesce a toccare alcuni nervi scoperti del nostro tempo, a far vibrare alcune note, acute proprio perché apparentemente stonate, della nostra condizione contemporanea.

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