Locarno. Le loro storie parlano di passioni, precariato e sopraffazione, violenza e razzismo. Intervista di fine festival a Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval, autori di «Low Life»
Locarno. Le loro storie parlano di passioni, precariato e sopraffazione, violenza e razzismo. Intervista di fine festival a Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval, autori di «Low Life»
Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval non temono il rischio. Per questi due cineasti, compagni anche nella vita, ogni film che fanno insieme – da La Blessure (2004) a La Questione humaine (2007) – è un gesto di resistenza, e un campo di battaglia con il contemporaneo. Le loro storie parlano di precariato, sopraffazione, violenza, razzismo: il nostro presente di catastrofe ma anche di lotta a cui cercano una corrispondenza interrogando continuamente le loro immagini.
Low Life, che chiude la Trilogie des Temps Modernes iniziata con Paris (2000), è una storia d’amore e racconta la guerra quotidiana, la giovinezza, la ricerca di un’utopia che è poesia, arte, godimento. Ci dice dell’individuo che si oppone alle camere di controllo, della battaglia di chi sfida l’annullamento nell’immaginario e nella vita.
Carmen e Hussein, lei giovane con passione per la fotografia, lui «clandestino» in fuga dall’Afghanistan, la cui domanda di asilo politico è stata respinta si incontrano, si innamorano. Costretti alla clandestinità cercano una sorta di dimensione parallela, una «Low life» da cui trarre l’energia per fronteggiare il giorno di violenza. Quasi una dimensione magica come i «riti» dei migranti che bruciano i loro fogli di espulsione per «congelarla». «Low Life per noi è un film fantastico, l’aspetto politico si configura in questa dimensione. Abbiamo girato con una Canon senza un’idea precisa del colore nelle singole inquadrature ma con una fortissima consapevolezza del gesto di filmare», dicono Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval nel nostro incontro, un pomeriggio di fine festival.
I protagonisti di «Low Life» sono tutti giovani. E la giovinezza coincide con un’opposizione alla violenza del nostro sistema sociale.
L’idea della giovinezza viene da molto lontano, ha in sé la forza dell’antichità. Inoltre girando in digitale volevamo ricreare i giovani in una luce fantastica. Questo però non significa che Low life sia un film astratto. Al contrario c’è un aspetto quasi documentario nelle cose che raccontiamo, persecuzione dei migranti, controlli polizieschi all’entrata della metropolitana. Ma è vero che Lyon è una città gotica, ed è la capitale della magia nera. Negli anni della seconda guerra mondiale è stata un centro importante della resistenza, lì si erano rifugiati molti spagnoli repubblicani.
Ecco la magia. Da dove vi è venuta questa immagine?
Il riferimento è alla possessione, ma è più un’idea mentale, quando si parla di possessione si intende un corpo più forte che prende il sopravvento su un corpo più debole. La colonizzazione in questo senso è una forma di possessione, l’occidente è arrivato in Africa e ha imposto un immaginario. La magia nera è anche la politica attuale degli stati che vogliono controllare corpi e le anime dei cittadini.
C’è un riferimento all’esotismo che continua a condizionare il nostro sguardo?
Più che esotismo ci troviamo davanti a un atteggiamento criminale, che vuole costruire intorno a una comunità, i migranti, l’idea del pericolo. L’esotismo degli anni Trenta aveva un lato paternalista, l’altro era visto come il selvaggio, l’attrazione … Oggi è la presenza stessa dell’altro che si cerca di eliminare. Il gesto di opporre la magia ai documenti di espulsione, è come dire che sono degli oggetti malefici, mettendoli nella tasca di qualcun altro esercitano su di lui i loro effetti negativi. Artaud in una fase della sua vita scriveva dei piccoli testi che mandava alla polizia per liberare dal loro peso il suo corpo. C’è qualcosa di provocatorio in questa azione, oggi infatti non si può più nemmeno fischiare la Marsigliese allo stadio, Sarkozy ha fatto una legge che punisce chi lo fa. Il fatto di bruciare in un rito vodoo un documento ufficiale dello stato francese è in sé una dichiarazione di combattimento.
Carmen e i suoi amici non sono dei veri e propri attivisti, piuttosto cercano una dimensione diversa, anche antagonista, dell’esistenza.
Non volevamo un personaggio di militante ma qualcuno curioso rispetto alla realtà in cui vive. Carmen va in giro e scatta fotografie della realtà quotidiana, intuisce che lì si nasconde una guerra, ma quando partecipa alla manifestazione contro l’espulsione dei migranti dalla casa occupata, subito all’inizio del film, non lo fa con l’idea di salvare il mondo. Ancora una volta vuole fotografare, e il primo viso che attira il suo sguardo è quello di Hussein. È un incontro amoroso ma la guerra, da quel momento, entra nella sua vita, la sequestra, è questo stesso sentimento d’amore.
Infatti la storia d’amore disegna la trama del mondo.
È lo spazio reale di resistenza in cui convergono le altre linee narrative. Lo stato d’eccezione entra nella vita di Carmen «contamina» i sentimenti, il corpo, distrugge l’utopia. La politica arriva attraverso l’amore e la nostra scelta di regia non vuole affermare una verità, al contrario interroga. Vorremmo tornare alla questione dei giovani. L’impegno politico oggi è molto diverso da come è stato per la nostra generazione, negli anni Settanta avevamo ancora fiducia nel progresso del mondo, chi ha vent’anni adesso è nato nella catastrofe e nel caos. La dimensione del fare politica è più intima, forse persino arcaica come in una sorta di «low life».
Cioè? Potete spiegare meglio?
Non c’è un’organizzazione forte, ci sono tante organizzazioni indipendenti, non istituzionali, nelle quali ciascuno si ritaglia uno spazio di intervento. Ai grandi obiettivi si sono sostituite le piccole realtà concrete…Se rimaniamo sul personaggio di Carmen, la sua relazione con la guerra l’ha resa un’Antigone di oggi, come un’eroina affronta la legge e difende la legge e non solo l’amore invocando contro la violenza e la sopraffazione del diritto la disobbedienza civile. La verità della democrazia dopo la fine del comunismo non è più così evidente. I giovani di Low life si muovono in uno spazio nel quale si vede poco. La loro idea di comunismo passa per la festa, l’amicizia, l’arte più che per le dichiarazioni della politica. Si tratta di civiltà, e forse della nascita di un nuovo comunismo.
Il vostro sguardo, e il vostro racconto del mondo, si contrappone radicalmente alle immagini delle telecamere di controllo che punteggiano lo spazio intorno a Carmen e Hossein. È uno scontro importante nella costruzione del film.
Quando Carmen viene interrogata dalla poliziotta, che le mostra delle sue immagini in una telecamera di sorveglianza, davanti a esse abbassa la testa. «Non vuoi vedere» dice la poliziotta; e Carmen replica: «Non si tratta di vedere, è solo sorveglianza». Per vedere ci vogliono un cuore e un’empatia verso ciò che si guarda. Un regista dovrebbe guardare l’umano, le telecamere di controllo invece lo eliminano totalmente, sono il contrario del cinema. A sua volta il pubblico deve avere la libertà di trasformare il film col suo sguardo, altrimenti un film non esiste. Il cinema per noi dovrebbe sempre essere un viaggio sensoriale come il sonno o l’amore.
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