Vita a Berlino: Prussia, nudisti e rock &roll

  Quattro anni nella capitale tedesca, tra multe e discoteche inaccessibili

  Quattro anni nella capitale tedesca, tra multe e discoteche inaccessibili

  BERLINO— Quando la schizofrenia diventa arte, probabilmente siete a Berlino. In quattro anni da corrispondente del Corriere della Sera è stato come se fossi partito per un viaggio nell’ordinata e rigorosa Prussia per approdare nelle cantine della controcultura giovanile. Due città che in apparenza guardano in direzioni diverse ma in realtà sono un unico animale. E non è solo la divisione tra Est e Ovest, ancora integra nella mente e nei comportamenti dei berlinesi. È che tutto è una contraddizione, a Berlino. Qualche settimana fa, nel Tiergarten, il parco che occupa un bel pezzo del cuore della città, ho assistito a un diverbio tra un gruppo di cittadini tedeschi e due famiglie turche che ammorbavano l’aria con i fumi del loro barbecue.
Finita la discussione, gli stessi indignati che invocavano regole e rispetto per gli altri hanno fatto pochi passi, si sono spogliati completamente e si sono stesi sull’erba, nel nome della Freikörperkultur, la cultura del corpo libero che ha lasciato sbigottite le signore dell’Anatolia e furiosi i loro mariti. È che non c’è limite in questa capitale che ha passato il Novecento annichilita dal peggio delle peggiori dittature e ne ha ancora tracce, mentre cerca di scrollarselo di dosso. La polizia vi può multare, in certe zone, se andate in bicicletta con una mano sola sul manubrio. Cinque euro. A me è capitato di ricevere nella cassetta della posta una contravvenzione perché pare che un buon cittadino mi avesse denunciato: avevo cambiato corsia, in città, senza mettere la freccia. Una dozzina di euro: moderati e amanti delle regole; anche un po’ spioni, mi è venuto da pensare.
Un amico che rispondeva al telefono mentre guidava è stato ovviamente fotografato da un altro automobilista, che ha poi riportato il tutto, delazione e prova illustrata, alla polizia (si vede che usare il cellulare per telefonare mentre si guida è vietato, ma per fotografare è ammesso). In compenso, in discoteche come il Berghain (la migliore del mondo, qualcuno dice) pare accada di tutto e in un club come il KitKat fare sesso con sconosciuti e in pubblico è perfettamente normale. Anche se— bisogna dire— pure lì c’è la regola: se non rispettate il dress code, sognatevi di entrare. Io ho provato due volte al Berghain e sono sempre stato respinto da un gigante tatuato dalla fronte in giù che seleziona con spirito prussiano: vietato trasgredire all’ordine trasgressivo. Dopo un po’ che ci vivete, scoprite che questa bipolarità è il meraviglioso di Berlino, ciò che ne fa la capitale europea più in movimento e più attraente per giovani, artisti, musicisti, scrittori ma anche pubblicitari, giornalisti, militanti ambientalisti e del bio, semplici coppie con tanti figli. I vecchi borghesi da una parte, a Ovest, dove il capitalismo ha sempre comandato, e i nuovi borghesi e gli alternativi a Est, dove il capitalismo comanda da quando è caduto il Muro, nel 1989, ma finge di essere ancora socialismo. Qualche sera fa, nel quartiere di Prenzlauer Berg, sono state bruciate due Mercedes e una Porsche. È un’abitudine: gruppi autonomi e di «difesa sociale» protestano con le molotov contro la gentrification dei «loro» quartieri, quelli che vent’anni fa erano fantasmi del socialismo reale da occupare a costo zero e poi sono stati ristrutturati in stile bohemienne dall’invasione dei giovani professionisti del terziario avanzato. Nessuno, però, protesta troppo per i roghi, polizia a parte, che trova muri di omertà: è Berlino, città di contraddizioni e di libertà, «povera ma sexy» , come dice il suo sindaco Klaus Wowereit, socialdemocratico con approccio imprenditoriale e omosessuale orgoglioso. D’altra parte, Angela Merkel è la leader dei cristiano-democratici, ma potrebbe essere una militante verde senza stupire nessuno, ora che ha anche ripudiato l’energia nucleare.
È che nella capitale tedesca niente e nessuno può essere solo una cosa: la città stessa è gloriosa d’estate, aperta nelle piazze e per strada, e cupa, sotterranea d’inverno. Berlino è probabilmente la capitale più moderna dell’Occidente, per i palazzi costruiti nel ventennio scorso, per i giovani che attrae e ci si organizzano, per gli enormi spazi liberi (si dice che ci siano almeno centomila appartamenti vuoti), perché è una città non finita, in divenire, e perché è low cost: possibile modello delle metropoli del futuro. Ma allo stesso tempo, ad ogni suo angolo si è assaliti dalla storia, la storia più terribile del secolo scorso, bruna oppure rossa. Dalla quale vorrebbe emanciparsi ma non lo può fare fino in fondo. Dagli anni Trenta a tutti gli anni Ottanta, Berlino è stata la vittima preferita del Novecento, dei suoi totalitarismi. Appena a Est della Porta di Brandeburgo, la Wilhelmstrasse racconta della cancelleria di Hitler progettata da Albert Speer, del ministero degli Esteri di Ribbentrop, del quartier generale della Propaganda di Goebbels e dei ministeri delle Finanze e dell’Agricoltura del Terzo Reich.
Appena prima, sulla Unter den Linden, l’ambasciata russa ricorda ancora oggi quello che era il centro del potere sovietico nell’Est, quando la città è stata divisa in due da un muro per quasi trent’anni, capitale martoriata anche dalla Guerra Fredda. Da questa storia non si esce dritti, come se nulla fosse successo. John Kennedy disse ai berlinesi dell’Ovest, due anni dopo l’infausta costruzione del Muro, «Ich bin ein Berliner» , «sono un berlinese» , ma una mia amica dell’Est dice che per anni, prima del 1989, avrebbe voluto essere una tedesca di Francoforte o di Amburgo, non di Berlino divisa dal filo spinato.
Oggi la città è rinata e guida una Germania nuova, un po’ meno europea e sempre più sicura di se stessa. Questa volta, ben decisa a non prendere ancora la parte sbagliata della storia. È per questo, forse, che la città vive di tolleranza, di trasparenza, di ambientalismo e di un po’ di schizofrenia per volere tenere tutto assieme, senza escludere nessuno. È lo spirito del berlinese: del militante autonomo, per dire, che si ferma al semaforo rosso e non attraversa anche se la strada è deserta e, a chi lo guarda stupefatto, chiede: «E se per caso mi vede un bambino?» . Passato sul lato opposto, si accende uno spinello. La vecchia capitale prussiana dell’Ordnung— che per i tedeschi non è solo ordine ma anche sistema— è in realtà una città anarchica: tedesca ma pure liberale. È questo essere allo stesso tempo moderna e vittima della sua storia, ma rilassata nella contraddizione, che la rende unica, un modo di essere oltre che un luogo. Ed è per questo che, lasciandola dopo quattro anni passati con il timore del semaforo rosso ma senza cravatta, sono stato felice di mettere in valigia un libro che un caro amico mi ha regalato, racconto di quanta strada ha fatto la città da quel 26 giugno 1963 di John Kennedy. «Io ero un berlinese» , si intitola.

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