Una materia negletta dai programmi

PERCORSI A costruire l’immagine ideale dell’Italia nei suoi 150 anni è stata la letteratura

Sebbene i manuali per le superiori siano ricchi di dati e di analisi, poco si fa per aiutare i giovani a elaborare un senso storico diffuso

PERCORSI A costruire l’immagine ideale dell’Italia nei suoi 150 anni è stata la letteratura

Sebbene i manuali per le superiori siano ricchi di dati e di analisi, poco si fa per aiutare i giovani a elaborare un senso storico diffuso

 Mentre sui banchi delle scuole dei «figliolini del popolo» ai racconti della Storia sacra succedevano i medaglioni degli eroi della patria, che cosa si imparava nelle aule destinate ai rampolli dell’élite? Anche per loro si può cominciare dalle scuole del Regno che avrebbe «fatto l’Italia». I giovani studenti delle scuole di latinità del Regno sabaudo non avevano nel piano dei loro studi uno spazio esplicitamente destinato alla storia: quella sacra l’avevano già digerita, pratiche e istruzione religiosa continuavano nella obbligatoria congregazione domenicale e il tempo scolastico era monopolizzato dal latino. Ma latino significava, dopo il penoso apprendimento delle regole del Donato, lettura, traduzione e memorizzazione di autori che nelle prime classi erano quelli religiosi, come la diffusissima Epitome historiae sacrae di Lhomond, assai utile a familiarizzare con la lingua dei classici.
Divenuti più esperti incontravano davvero la storia, sia pure scritta da autori latini e limitata al mondo antico: si trattava di Sallustio, di Livio, di Tacito. «Cosa strana, ma vera! La pubblica educazione in Piemonte era affatto repubblicana!», osservava Giovanni Ruffini raccontando le sue imprese di collegiale nel Lorenzo Benoni: «La storia di Grecia e di Roma, l’unica cosa che ci fosse insegnata con molta cura nel collegio, era in verità, secondo l’aspetto in cui ci veniva presentata, poco meno che un libello famoso contro la monarchia ed un vero panegirico del reggimento democratico». E si stupiva che ai giovani venissero suggeriti sentimenti opposti a quelli cui avrebbero dovuto obbedire, da adulti. Forse c’era una certa sapienza in quel modo di procedere all’apparenza contraddittorio: la formazione di uomini capaci di muoversi nella società doveva passare attraverso la conoscenza della grandezza e dell’abiezione, della giustizia e della prevaricazione, della dirittura e delle varie forme dell’inganno, dell’intrigo e del tradimento. Che le grandi virtù fossero per lo più dei tempi della repubblica e i grandi vizi della corrotta età imperiale non preoccupava più di quanto oggi si tema che le fiabe, che narrando di re e principesse aiutano i bambini a riconoscere il loro mondo interiore, facciano di loro dei piccoli fautori della monarchia. Collocato nelle regioni di una lingua e di un tempo di esemplare alterità, quello studio poteva insegnare le molle nascoste dell’agire umano e del dispiegarsi degli eventi senza compromettersi con età troppo esposte a giudizi pericolosi, da cui la mente inesperta dei giovani andava protetta.
Poi venne il Quarantotto e la scuola fu coinvolta nel turbine degli entusiasmi e delle lotte ideali: i ragazzi dei collegi apparvero d’improvviso cresciuti, la bellezza nuova della politica li faceva apparire i naturali destinatari di un messaggio carico di pathos. Capovolgendo di colpo i vecchi schemi, i ragazzi vennero chiamati a partecipare e a giudicare: non pochi professori presero a commentare con i loro alunni gli eventi nazionali ed esteri e a cercare nel passato della storia italiana i segni premonitori dei tempi nuovi: «ora che gli avvenimenti hanno una parola così potente …chi non vede come la cronaca contemporanea sia il miglior punto di partenza per risalire alla storia del passato, e una sicura guida e maestra dell’avvenire», scriveva il direttore di «Il giovinetto italiano», giornale per ragazzi genovese che esibiva un approccio pedagogico fino allora impensabile. Ma le sconfitte e l’emarginazione della sinistra radicale rimisero presto le cose in ordine.
Mentre gli storici sabaudisti preparavano le basi per la futura storia d’Italia in chiave regia, già nel 1851 Amedeo Peyron, conservatore, studioso di vaglia di lingue classiche e orientali, riproponeva, con chiaroveggente consapevolezza, il vecchio sistema: solo la storia antica, ma «con le cause politiche, religiose, civili che preparano i fatti… Col mio sistema la scolaresca imparerà due cose, la storia antica, ed il metodo per imparare poi da sé la storia moderna; laddove col vostro non impareranno neppure che cosa sia la storia». Aveva colto quanto sarebbe stato difficile mettere insieme una onesta sequenza di «cause» e «fatti» contemporanei.
Qualche anno dopo, fatta l’Italia, bisognava farne la storia. Ma a costruirne l’immagine ideale e a trasmetterla ai giovani fu la letteratura, cui la scuola dedicò cure e spazio ben maggiori che agli eventi storici: troppi secoli «bui» nel passato lontano, troppi episodi da dimenticare negli anni recenti per fondarvi una tradizione nazionale. Nel 1883, quando i programmi del ministro Baccelli assegnavano al ginnasio la storia antica e ai primi due anni del liceo la storia moderna, conclusa con una scarna «esposizione cronologica dei fatti pei quali si apparecchiò e si compì l’indipendenza e l’unificazione politica d’Italia», la commissione per l’esame dei libri di testo presieduta da Anton Giulio Barrili dedicava trentacinque pagine alla scelta degli autori e dei testi letterari italiani e tre pagine e mezzo ai manuali di storia: condannava, di alcuni, «il carattere polemico, il sistema personale ed arbitrario delle interpretazioni».
Quando si andava oltre le immaginette dei padri della patria, insegnare ai giovani di buona cultura a leggere i fatti storici era impresa sempre rischiosa, appariva consigliabile non entrare in discorsi inevitabilmente «di parte» e ci si fermava. Del resto che la storia sia stata a lungo materia «leggera», quanto a orario e a impegno di studio, potrebbero testimoniarlo ancora oggi generazioni di adulti tra la terza e la quarta età, che della storia d’Italia ricordano giusto le scansioni apprese alle elementari: il Congresso di Vienna e le società segrete, i moti, le guerre di indipendenza con Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e Cavour, Garibaldi e la spedizione dei Mille, l’Unità e la Grande guerra. Per gli eventi successivi le memorie scolastiche si confondono con la storia orale di famiglia e soprattutto con le immagini dei film.
Più tardi le cose sono cambiate. Negli anni Settanta anche ai bambini si cominciò a insegnare la rivoluzione industriale e la lotta di classe; la prima Guerra mondiale aveva cambiato faccia con i carabinieri che fucilavano i disertori; e poi s’erano scoperti fascismo e Resistenza.
Ma i giovani adulti di oggi, usciti dalle scuole secondarie, continuano a sapere poco di storia. Finiti gli anni in cui l’esser di parte era un vanto, non si è smesso di scrivere storia per la scuola. Difendersi dalle accuse sempre in agguato di semplicistica parzialità ha significato fare testi assai belli e ricchi. Gli argomenti, le analisi e le pagine si sono andati moltiplicando, tanto che questi libri sono utili anche a preparare gli esami universitari. Meno a fissare nella mente dei ragazzi sedicenni un prima e un dopo, a elaborare un senso storico diffuso, a consentire di collocarsi in qualche punto di un processo.
Sarà legittimo e possibile trovare, a centocinquant’anni dall’Unità, un’idea che permetta di insegnare davvero un po’ di storia in una scuola secondaria che non è più destinata all’élite dei colti ma a formare la maggioranza dei cittadini?

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