DIBATTITO Nei suoi documenti fondativi, appena resi pubblici, TQ, movimento dei lavoratori della conoscenza trenta-quarantenni, si pone l’obiettivo di riscrivere i termini di «quel patto sociale che si è rotto sia per il venir meno del rapporto diretto tra crescita del livello d’istruzione e crescita del reddito, …sia per l’annullamento unilaterale del mutuo scambio tra la nostra generazione e quella precedente».
DIBATTITO Nei suoi documenti fondativi, appena resi pubblici, TQ, movimento dei lavoratori della conoscenza trenta-quarantenni, si pone l’obiettivo di riscrivere i termini di «quel patto sociale che si è rotto sia per il venir meno del rapporto diretto tra crescita del livello d’istruzione e crescita del reddito, …sia per l’annullamento unilaterale del mutuo scambio tra la nostra generazione e quella precedente». Obiettivo ambizioso ma necessario, come necessari sono il tentativo di riappropriarsi di vent’anni “persi per pigrizia, complicità, deficit di comprensione, pudore» (Raimo sul manifesto del 27 luglio), e la combinazione tra difesa dei «beni comuni» e ricerca di giustizia sociale (Ciccarelli sul manifesto dello stesso giorno). La generazione TQ è dunque perfettamente consapevole che «porta su di sé, per la prima volta, il fardello di mutamenti storici che riguardano tutti, e in particolare i più giovani». Eppure, di questi mutamenti storici non c’è traccia, nel manifesto politico né in quelli dedicati a Editoria e Spazi pubblici (generazionetq.wordpress.com). C’è traccia solo dei mutamenti relativi al nostro Belpaese, divenuto sempre più irrilevante, politicamente e culturalmente, proprio quando crescevano i TQ, a quanto pare poco inclini a riconoscere che quel che è accaduto in Italia («il decadimento della partecipazione democratica, il degrado dell’informazione, la distruzione del patrimonio culturale…») è un fenomeno che riflette cambiamenti assai consistenti. Viziato da uno sguardo troppo introflesso sulle patologie della democrazia italiana e sui vizi corporativi dell’industria culturale, il manifesto TQ fatica a vedere questi cambiamenti. Non oltrepassa i perimetri della penisola italiana se non per denunciare (puro buon senso) la repressione di quanti sui nostri confini premono, i migranti, e già il fatto che l’Italia venga ridotta ai suoi confini rileva uno sguardo insulare. TQ non propone, come ci si aspetterebbe da chi storicamente meno ha subito il ricatto delle sirene patriottiche, uno sguardo che dal particulare della provincia italiana sappia aprirsi, consapevole che, per esempio, la rifondazione di un nuovo patto sociale e l’istituzione di un nuovo welfare possano ormai avvenire solo a livello europeo. E propone invece un punto di vista ombelicale, tranne che per quell’accenno al dovere di «osservare il diffondersi del neoliberismo come un’epidemia dell’Occidente». Un’apertura al mondo subito ricondotta nell’alveo nazionale e che rivela di nuovo un ritardo clamoroso: che i trenta-quaratennni si allertino, ora, per osservare il diffondersi del neoliberismo, fa sospettare che non abbiano avuto coscienza del liquido amniotico nel quale siamo cresciuti. Stupisce che un gruppo di intelligenze vive e talora intransigenti, cresciute a pane e cosmopolitismo (letture, relazioni, consumi culturali), punti l’obiettivo solo sull’Italia. Il resto del mondo non esiste, né esistono tendenze culturali, e prima ancora ideologiche, meccanismi economici, concentrazioni mediatiche transnazionali. Forse sarebbe più opportuno circoscrivere gli obiettivi, rinunciando all’analisi del «secolo svuotato di senso» e puntando pragmaticamente a «una nuova idea operativa di cultura». Senza illudersi che questa, da sola, possa «fare rinascere il mondo».
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