Il settimanale “Gli Altri” sta dedicando, negli ultimi numeri, spazio, mano a mano, crescente al tema della “nonviolenza”. In particolare, tenterò di soffermarmi su un editoriale dello scorso numero, firmato da Ritanna Armeni, che, innegabilmente, registra la sgradita consonanza tra l'ennesima riapertura di uno sfibrante e consunto dibattito ideologico, tutto ideologico, e gli episodi verificatisi in Val di Susa, quando i manifestanti della rete NO TAV hanno prodotto un radicalizzarsi del loro iter di lotta, parallelo all'esercizio di quei poteri che contrastano espressamente le ragioni del loro iter di lotta (le autorità , locali e nazionali, politiche e di polizia, che vigilano, invece, per la costruzione della TAV).

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TAV: quattro chiacchiere sulla nonviolenza

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Il settimanale “Gli Altri” sta dedicando, negli ultimi numeri, spazio, mano a mano, crescente al tema della “nonviolenza”. In particolare, tenterò di soffermarmi su un editoriale dello scorso numero, firmato da Ritanna Armeni, che, innegabilmente, registra la sgradita consonanza tra l’ennesima riapertura di uno sfibrante e consunto dibattito ideologico, tutto ideologico, e gli episodi verificatisi in Val di Susa, quando i manifestanti della rete NO TAV hanno prodotto un radicalizzarsi del loro iter di lotta, parallelo all’esercizio di quei poteri che contrastano espressamente le ragioni del loro iter di lotta (le autorità , locali e nazionali, politiche e di polizia, che vigilano, invece, per la costruzione della TAV).

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Il settimanale “Gli Altri” sta dedicando, negli ultimi numeri, spazio, mano a mano, crescente al tema della “nonviolenza”. In particolare, tenterò di soffermarmi su un editoriale dello scorso numero, firmato da Ritanna Armeni, che, innegabilmente, registra la sgradita consonanza tra l’ennesima riapertura di uno sfibrante e consunto dibattito ideologico, tutto ideologico, e gli episodi verificatisi in Val di Susa, quando i manifestanti della rete NO TAV hanno prodotto un radicalizzarsi del loro iter di lotta, parallelo all’esercizio di quei poteri che contrastano espressamente le ragioni del loro iter di lotta (le autorità , locali e nazionali, politiche e di polizia, che vigilano, invece, per la costruzione della TAV).

La simultaneità tra quegli editoriali e le scene viste sulle televisioni di tutto il mondo, e sperimentate dal vivo sulla pelle dei manifestanti, danno l’idea di una separazione molto netta, tra un mondo di carta, che si nutre del linguaggio forbito del proprio perimetro di studi, e un mondo di carne, dove, in sequenza, si vedono gli abusi, gli scontri, i feriti.

Altra grave questione da disinnescare è la leggiadria con cui si scindono, da più parti, metodo e merito: il discorso sull’opportunità economica della realizzazione della TAV (pure discutibile, persino ragionando in termini di politica economica neoliberale) è stato usato come motivo legittimante per l’adozione di provvedimenti restrittivi, per la repressione pugnace delle soggettività più esposte nella battaglia contro la TAV, per la consueta gogna mediatica nei confronti di un’area sociale assai più larga della sua corrispondente area politica.

Il tema della nonviolenza, in ogni caso, se affidato all’elaborazione politica dell’ex gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, soffre di un deficit sia teorico che pratico piuttosto serio. Giacché non si parla di nonviolenza nel senso politico del termine (basta aprire Gandhi e scoprire che nonviolenza è l’attitudine a sopportare le ferite inferte da un nemico e il contenimento del desiderio di vendetta), ma di una propensione a non affrontare i conflitti che si aprono nella società.

Piaccia o non piaccia, sia utile o dannosa, la TAV ha scoperto i nervi di un conflitto reale: quello tra comunità territoriali, reti ambientaliste e forum popolari, da un lato, e quello tra fautori dell’investimento dall’altro. Le ragioni dei secondi sembrano addirittura più coese delle ragioni dei primi, ma ciò non ci dice ancora nulla su quali ragioni siano più giuste.

Quanto poi al tema della “nonviolenza” come opzione teorica, è assai improbabile che chicchessia, potendo scegliere tra esprimere in modo efficace il proprio dissenso alla realizzazione di un’opera pubblica e resistere e reagire, anche consapevolmente, energicamente e “combattivamente”, a un presidio di polizia, preferisca la seconda ipotesi alla prima. Il rifiuto della violenza, soprattutto nella forma del rifiuto di uno scontro armato e nella tutela della vita dalle lesioni, dagli attacchi e dalle aggressioni, è, in questi termini, acquisizione compiuta del movimentismo politico in Italia.

La violenza dei cortei e degli scontri non è contigua alle pretese di scontro armato, è più vicina a un vandalismo resistenziale, non troppo dissimile dall’operaio inglese che sfascia il telaio per difendere il proprio lavoro: è una testimonianza le cui forme sono indotte anche dalle condizioni storiche date. Anche questa forma di “violenza”, più simile alla disobbedienza, per il vero, più reattiva che offensiva, indiscutibilmente, dovrebbe esser sottoposta a critiche serratissime, responsabilmente scoraggiata, costantemente combattuta e civilmente scavalcata da altre forme rivendicative.

È ben strano, però, che questo invito, tra l’altro: in forme piuttosto pressanti, volte a stabilire gerarchie tra persone che dovrebbero convergere verso traguardi affini, giunga da quella generazione che ha sempre rifiutato una riflessione di pari intensità sugli anni di piombo e sulla storia della violenza politica in Italia, che ha avuto storicamente forme d’apparato, di contenimento dei movimenti sociali, di carattere giudiziario e penitenziario, ma non culturale, antropologico e collettivo. È ben strano, ma non illusorio.

La fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, dopo una stagione di lotte dispiegatasi a un impensabile livello di massa, segna lo slittamento delle politiche governative verso Destra: ristrutturazione industriale, rinegoziazione della normativa bilaterale tra Stato e Chiesa, contenimento dell’inflazione contro crescita del salerio, trasversalismo politico contro libera formazione del consenso.

Anche i movimenti del 2001 hanno subito, certo con meno colpe, un arroccamento delle posizioni reazionarie, che hanno giustificato riforma del lavoro, della scuola, stretta sui diritti civili e rinnegamento del pluralismo e del multiculturalismo. Dieci anni dopo, però, il germe di una domanda di rinnovamento, sia sociale che legislativo, su: beni comuni, solidarietà sociale, legalità come fondamento relazionale e non come giustificazione di burocrazie, è rientrato in gioco. Lo sbocco che esso richiede non è né il riformismo pasticciato né (però!) il gioco sui termini, le discussioni in punta di dottrina e fioretto… Semmai, l’inchiesta sulla marginalità, la partecipazione politica, l’attuazione del diritto, l’eguale libertà.

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