Quando il diritto genera mostri

ROTTE POSTCOLONIALI
Dall’ultimo numero di «Lettera internazionale», in arrivo nei prossimi giorni in libreria, anticipiamo un testo sulla legislazione vigente nelle colonie francesi. Misure da tempo decadute, eppure non del tutto morte La divisione tra la Francia repubblicana e i territori dell’impero in un regime di eccezione permanente ha avuto effetti duraturi

ROTTE POSTCOLONIALI
Dall’ultimo numero di «Lettera internazionale», in arrivo nei prossimi giorni in libreria, anticipiamo un testo sulla legislazione vigente nelle colonie francesi. Misure da tempo decadute, eppure non del tutto morte La divisione tra la Francia repubblicana e i territori dell’impero in un regime di eccezione permanente ha avuto effetti duraturi

 «Se per valutare correttamente il “regime disciplinare” – imposto agli autoctoni d’Algeria – assumessimo il punto di vista di un francese del XIX secolo, abituato a tutte le garanzie costituzionali derivate dai princìpi del 1789, ciò apparirebbe mostruoso». Queste righe, pubblicate nel 1895, non sono state redatte da uno strenuo oppositore della colonizzazione. Tutt’altro: all’origine di questa citazione non c’è alcuna sensibilità o passione anacronistica, cieca alla differenza dei tempi, dei costumi e delle pratiche, né alcuna critica, tanto più che il seguito è un appello in favore dell’utilizzo di misure straordinarie ma necessarie per garantire la perennità della dominazione francese: «Gli indigeni, (per i quali) le nozioni (del 1789) sono assolutamente estranee», trovano questo regime «naturale perché noi siamo i più forti. Esso prevede mezzi di repressione flessibili, comodi, rapidi, che evitano il ricorso ad altri procedimenti più rigorosi» precisa l’autore. «In altri termini, è l’arbitrario amministrativo; tuttavia, i suoi inconvenienti sono meno sensibili che in Europa e i suoi vantaggi maggiori».

Pruriti normativi
Anche quando esso deroga alle leggi fondamentali della Repubblica, il «regime disciplinare» – compresi il Codice dell’indigenato, l’arresto, il sequestro e la responsabilità collettiva – deve essere valutato esclusivamente in termini di efficacia. In queste materie, il fine perseguito – la difesa della «presenza francese» come si scriveva allora – giustifica tutti i mezzi, anche a costo di instaurare un ordinamento giuridico «mostruoso» che si distingue per poteri esorbitanti e «arbitrari» conferiti al governatore generale, incaricato di comminare le specifiche sanzioni agli «indigeni».
Inoltre, per ben comprendere questa situazione, bisogna andare oltre i princìpi ereditati dalla Rivoluzione, che scopriamo essere oggetto di un’applicazione molto restrittiva, perché non valgono né per tutti i luoghi né per tutti gli uomini. Disfatta dell’universalismo e trionfo duraturo del relativismo giuridico, politico e morale, che fonda e legittima istituzioni coloniali disegualitarie, discriminatorie e illiberali, come ammetteva lo stesso autore. (…)
Chi fu a redigere i passi succitati e a elaborare questa dottrina inedita che distrugge l’assimilazione, giudicata a torto come una caratteristica della colonizzazione francese, mentre essa fu ufficialmente abbandonata nel corso dell’estate del 1900, a vantaggio di una nuova politica detta di «associazione»? Arthur Girault, celebre professore della facoltà di Poitiers. Considerato uno dei più grandi esperti di diritto coloniale dai contemporanei francesi e stranieri, fu anche membro dell’Institut colonial international del Conseil supérieur des Colonies e dell’Académie des sciences coloniales, fondata nel 1922. Il suo lavoro più importante, Principes de colonisation et de législation coloniale è diventato «libro di testo di studenti» e «studiosi della materia», riedito sette volte tra il 1895 e il 1938.
Carriera brillante e influenza notevole, visto che i suoi lavori arrivarono a ispirare i giuristi dell’Italia fascista di Mussolini, quando questi dovettero redigere lo statuto degli «indigeni» presenti sui territori dominati o conquistati dal Duce. Troppo spesso ignorata, la diffusione del diritto coloniale francese e di alcuni dei suoi maggiori esponenti merita invece di essere messa in luce.
Emerge una linea di pensiero generale; per molti, essa è concepita come una verità stabilita dalla storia, dall’etnologia, dall’antropologia e dalla psicologia dei popoli: le razze inferiori e le razze superiori devono essere sottomesse a regimi politici e giuridici del tutto opposti. Ai popoli avanzati d’Europa e del Nord America si addicono i benefici della democrazia, dello Stato di diritto e delle lunghe procedure, destinati a garantire le prerogative civili e civiche dei loro membri. Ai popoli «arretrati» o «mal» civilizzati d’Africa, d’Asia e di Oceania è necessario imporre altre istituzioni e una giustizia che, alleggerita dalle finezze derivanti dalla «separazione tra autorità amministrativa e giudiziaria», potrà prontamente sanzionare gli «indigeni» ricordando loro che «gli Europei sono (…) i padroni», così sostenne Girault nel 1900 dalla tribuna del Congrès international de sociologie coloniale.
Ostile all’assimilazione dei colonizzati, egli precisa che bisogna «punire immediatamente e infallibilmente coloro che uccidono e rubano. Questa è una necessità politica dinanzi alla quale gli scrupoli giuridici e le considerazioni sentimentali devono annullarsi». E di fatto si annulleranno, in un contesto segnato, a partire dal 1871, dalla straordinaria espansione geografica e demografica di un Impero che, all’inizio del XX secolo, fa della Francia la seconda potenza imperiale del mondo, davanti ai Paesi Bassi e subito dietro alla Gran Bretagna.
Questo bilancio ammirevole, (ammesso che lo sia), ha posto numerosi problemi materiali, umani, militari e politici inediti, che era necessario risolvere al più presto per garantire la stabilità della dominazione francese in Africa, in Asia e in Oceania. Da ciò deriva lo sviluppo spettacolare del diritto coloniale, generato da un prurito legislativo e normativo incessante, le cui cause sono la ragione di Stato, il regime dei decreti e le peculiarità dell’ordine pubblico imposto nei possedimenti d’oltremare.
«Mostruosità giuridica», scrivono nel 1923 Emile Larcher e Georges Rectenwald del Codice dell’indigenato in vigore nei dipartimenti francesi d’Algeria a partire dal 1875. Che cosa determina questa considerazione, senza dubbio ispirata da Girault? Innanzitutto, la natura delle sanzioni previste e, poi, le modalità con cui devono essere applicate, perché non sono sanzioni pronunciate da un «tribunale», ma da un «funzionario amministrativo», il «governatore generale», per «reprimere fatti che non sono nettamente definiti» estendendoli anche a terzi innocenti, perché «esse non colpiscono solo gli individui» ma anche gruppi interi – tribù o duar – nel quadro della responsabilità collettiva giudicata contraria al principio della «individualità della pena».
Eccezione permanente
«In breve – concludono questi due giuristi di fama – disposizioni del genere sono totalmente al margine del nostro diritto penale». Al margine, certo, tuttavia indispensabili nei possedimenti d’oltremare dove è necessario «prima di tutto (…) affermare il nostro dominio con un sistema autoritario» e con una «politica di assoggettamento» che è «la sola possibile quando si tratta di vaste colonie di sfruttamento e popolate da milioni di indigeni refrattari alla nostra civiltà». (…)
Le conseguenze della divisione tra una metropoli repubblicana e i territori dell’Impero sottomessi a un regime di eccezione permanente, sul piano politico e giuridico, sono immense perché le leggi votate alla Camera dei deputati non sono in questo caso direttamente applicabili. Nel 1940, i docenti di diritto Louis Rolland e Pierre Lampué ritengono che all’origine di questa situazione ci sia un costume ereditato dall’«Ancien régime».
Tenuto in vita dopo il 1789, questo costume permette, tra l’altro, di comprendere la singolare redazione dell’articolo 109 della Legge fondamentale della Seconda Repubblica che, pur rendendo il «territorio d’Algeria e delle colonie» un «territorio francese», allo stesso tempo precisa che sarà disciplinato da «leggi particolari fino a quando una legge speciale non le collocherà sotto il regime della presente Costituzione». Sappiamo quello che è successo, il regime transitorio previsto da questa disposizione divenne definitivo ed essa è stata interpretata nientemeno che come «l’espressione di un principio» al quale generazioni di giuristi e di responsabili politici si sono sottomessi per quasi un secolo.
Distinzione e subordinazione
Questo principio detto «di specialità», così importante in ragione della natura costituzionale e repubblicana della norma che lo sostiene e delle sue conseguenze per le popolazioni «indigene», è definito in modo preciso dall’avvocato onorario presso il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione, Pierre Dareste, che nel suo Traité de droit colonial, pubblicato nel 1931, scriveva: «Le leggi metropolitane non (si estendono) in pieno diritto alle colonie che (sono) regolate da una legislazione propria». (…)
Del diritto coloniale, si può dire in fine che è un diritto senza Principio, a condizione di aggiungere subito che esso obbedisce non di meno a un principio sotterraneo e costante i cui effetti sono ovunque visibili: essere al servizio di una politica dove «il primo dovere» del conquistatore è «mantenere la sua dominazione e assicurarne la durata; tutto ciò che può essere efficace per consolidarla e garantirla è buono, ciò che può indebolirla e comprometterla è cattivo. Questo è il motto fondamentale che dovrebbe guidare la condotta del dominatore e regolarne i limiti», afferma l’ex diplomatico Jules Harmand in un’opera importante pubblicata nel 1910. Queste sono anche le funzioni delle istituzioni e della legislazione coloniali; nessuno le ignora dunque.
Essendo un diritto senza Principio, il diritto coloniale è anche un diritto strumentalizzato e degradato, ridotto alla stregua di puro mezzo asservito a un fine preciso: garantire la dominazione della Repubblica Imperiale sulle popolazioni d’oltremare. Anche a causa di ciò, è un diritto antidemocratico la cui funzione non è di liberare e di rendere uguali coloro che esso coinvolge, conformemente ai princìpi dello ius naturalis soggettivo e moderno, ma assoggettare e discriminare gli autoctoni, collocandoli sul gradino più basso della gerarchia politica, sociale e giuridica istituita nell’Impero.
Professore di diritto coloniale presso la facoltà di Parigi, René Maunier, rileva, nel 1938, che «non esiste, nelle colonie, uguaglianza tra cittadini e sudditi (ma) distinzione (e) subordinazione perché i sudditi sono sì francesi, ma francesi che non sono cittadini». Partigiano appassionato di questa visione delle cose, che ha sempre difeso giudicandola conforme alle caratteristiche dei popoli «primitivi» o «ritardati» dei possedimenti d’oltremare nonché necessaria a garantire la supremazia dei coloni e l’autorità della metropoli, aggiunge: «Gli indigeni hanno meno diritti, sono inferiori e non uguali, ecco perché la parola sudditi definisce bene la loro condizione». Non si potrebbe dir meglio…
Lo stesso accade in Algeria, dove, nonostante il decreto del 24 ottobre 1870 che proclamava l’unità del territorio, la sua assimilazione al territorio metropolitano e la creazione di dipartimenti, i «musulmani» restano «sudditi francesi»: questa regola fondamentale è «caratteristica della loro condizione giuridica», scrivono Larcher e Rectenwald, che fanno notare anche che «nessuna disposizione del diritto positivo permetteva di creare tra i francesi tali distinzioni».
Principio di segregazione
Precisiamo che questi due autori si preoccupano solo della dubbia legalità di tali distinzioni, che essi non riescono a far risalire a misure precedenti; la legittimità di tali distinzioni, al contrario, non crea loro alcun problema: è il prezzo che la Francia deve pagare per mantenere il dominio in Africa del Nord. Dunque, in tutte le colonie, e al di là delle particolarità legate allo statuto specifico ma minoritario di certi «indigeni», sorgono una «legislazione duplice», un «governo duplice», un’«amministrazione duplice» e una giustizia duplice, in cui «ciascuno» ha i «suoi giudici», in cui ciascuno ha le «sue leggi».
Come illustra il professor Maunier nel corso di diritto da lui elaborato nel 1938 per gli studenti della facoltà di Parigi, tale è dunque il principio di segregazione che disciplina l’organizzazione delle istituzioni coloniali, siano esse politiche, amministrative o giudiziarie. Tutte poggiano su discriminazioni razziali giuridicamente sancite e pubblicamente rivendicate, che strutturano due ordini distinti: quello degli europei e quello degli autoctoni; con il primo che naturalmente domina il secondo.
Per quanto riguarda la legislazione dell’Impero, la nostra situazione è singolare perché essa è ancora oggi poco nota pur avendo dato vita, sotto la Terza e Quarta Repubblica, a innumerevoli dibattiti, opere, tesi, manuali e articoli. Inoltre, e ciò è in parte legato a questo, in virtù di un decreto del 1° agosto 1905, questa nuova disciplina è stata introdotta nelle facoltà di diritto per permettere agli studenti di rendersi edotti nella materia e per coloro che lo desideravano di prepararsi al meglio per il concorso d’ammissione alla Scuola coloniale fondata nel novembre 1889.
Sorta di enorme continente sommerso, dimenticato o dissimulato – poco importano i termini e le cause diverse del fenomeno – questa legislazione è stata travolta dalla scomparsa dei possedimenti francesi, mentre, invece, i contemporanei di quel periodo «fausto», in cui il paese era la seconda potenza imperiale del mondo, le dedicavano grande attenzione, riconoscendone l’estrema importanza. Se il passato della Plus Grande France è oggetto di studi sempre più numerosi condotti da ricercatori di varie discipline, la legislazione d’oltremare resta a confronto troppo spesso negletta.
La maggior parte dei giuristi e degli storici del diritto quasi ne ignorano l’esistenza; lo testimoniano i loro manuali e trattati. (…) Neanche i politologi sfuggono del tutto a questa regola generale, come dimostra uno dei padri fondatori della loro disciplina, il celebre e ancora onorato André Siegfried, difensore entusiastico degli imperi coloniali, che, in un’opera apparsa nel 1932, li definisce come essenziali per il perdurare dell’«egemonia bianca», al fine di preservarla dalla «marea ascendente dei popoli di colore» in un contesto in cui, «per la prima volta dal Rinascimento», secondo lui, questa egemonia «è messa in discussione, materialmente e moralmente». Poco numerosi sono infine gli storici che fanno della legislazione delle colonie uno dei principali temi delle loro ricerche. Le analisi di questo diritto così particolare, delle sue origini spesso oscure, delle sue molteplici trasformazioni e dei suoi effetti sugli «indigeni» restano dunque frammentarie. Quanto ai testi – leggi, decreti, ordinanze e circolari – sono inaccessibili ai più a causa dell’assenza di raccolte recenti e facilmente consultabili. Lo stesso vale per le opere dei giuristi dell’epoca, che sarebbero una risorsa indispensabile e preziosa per comprendere i testi. (…)
Asilo agli stranieri
Per seguire i percorsi spesso lunghi e complessi della legislazione coloniale, bisogna affrancarsi anche dalle cronologie limitate che dimenticano tali percorsi che pure dimostrano che il diritto d’oltremare è stato un laboratorio particolarmente fecondo dell’eccezione politica e giuridica. In forme variabili, a seconda delle circostanze, dei governi e dei regimi, essa contempla i casi rilevanti, ma poco rimarcati, della detenzione amministrativa, della responsabilità collettiva e de «l’asilo concesso (…) agli stranieri senza documenti».
Non si tratta di una citazione dell’articolo della Legge 622-1 del Codice di ingresso e di soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo, bensì di un estratto dell’articolo 19 del Codice dell’indigenato algerino del 9 febbraio 1875. Tutte queste misure hanno origini coloniali, e tutte sono ancora presenti nella legislazione del nostro paese. Il «mostro giuridico» della Plus Grande France ormai non esiste più, ma alcuni suoi discendenti sono ancora all’opera…
(traduzione di Isabella Rinaldi)

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PROFILO
Uno storico francese tra guerre e colonie

 Professore di scienze politiche all’università Évry-Val d’Essonne e al Collège International de Philosophie, Olivier Le Cour Grandmaison è nato a Parigi nel 1960 e da diversi anni si occupa di diritti del cittadino durante la Rivoluzione francese e di storia coloniale. Fra i suoi libri più importanti, «De l’indigénat. Anatomie d’un “monstre” juridique: le droit colonial en Algérie et dans l’empire français» (La Découverte 2010), «La République impériale: politique et racisme d’État (Fayard 2009, tradotto in arabo nello stesso anno) e «Coloniser, exterminer: sur la guerre et l’état colonial» (Fayard 2005). Il testo che vi proponiamo in questa pagina nella traduzione di Isabella Rinaldi è un ampio stralcio dall’intervento di Le Cour Grandmaison pubblicato nel numero 108 della rivista «Lettera internazionale», che arriverà nelle librerie italiane nei prossimi giorni. Fra gli altri materiali presentati dalla rivista, oltre a un articolo di Slavoj Zizek su «Wikileaks. L’arte di disturbare il manovratore», un testo di Franco Cassano che apre il numero e che si intitola «La rotta del Sud. Per spostare il centro del mondo». E proprio questo, sottolinea nel suo editoriale Biancamaria Bruno, responsabile del periodico, è il concetto chiave attorno al quale ruota per intero l’ultimo numero di «Lettera internazionale»: l’idea cioè che «il centro del mondo è ovunque» e che «lo spirito del Sud, la sua “lentezza” e la sua “misura”, possono tornare a essere il principio ispiratore della gestione del pianeta».

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