Più conflitto di classe, meno movimentismo

LAVORO & CAPITALISMO
 Compriamo (o scarichiamo on-line) il manifesto tutti i giorni, alcuni di noi ormai da 40 anni. Lo leggiamo però sempre di meno, senza sapere bene il perché. C’è di peggio. Ogni tanto lo leggiamo. Come l’8 luglio scorso, attirati da due firme che stimiamo: Guido Viale e Loris Campetti.

LAVORO & CAPITALISMO
 Compriamo (o scarichiamo on-line) il manifesto tutti i giorni, alcuni di noi ormai da 40 anni. Lo leggiamo però sempre di meno, senza sapere bene il perché. C’è di peggio. Ogni tanto lo leggiamo. Come l’8 luglio scorso, attirati da due firme che stimiamo: Guido Viale e Loris Campetti. Il primo dice, molto spesso, cose giuste. Tuttavia, nel suo articolo dell’8 luglio deraglia, quando infila, quasi fosse una ovvietà, una frase secondo cui l’intervento dello stato sarebbe impedito dal fatto che «mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating». Il secondo parla della necessità di superare una «vecchia certezza», quella secondo cui sarebbe «imprescindibile» il legame reddito-lavoro.
Sarebbe interessante sapere che teoria economica ha in mente Viale, e su cosa Campetti basi la sua affermazione. Vero è che una tesi come la sua è stata attribuita tempo fa dalla stampa a Maurizio Landini. È anche stato riportato con sussiego che Landini non avrebbe letto Marx. Certo, viene da pensare, leggersi il Capitale non è un obbligo. In qualche caso aiuterebbe: basti il riferimento al salario di sussistenza per la classe dei lavoratori, dunque per il proletariato nella sua interezza, del tutto indipendentemente dalla produttività.
Aiuterebbe anche avere una idea di economia meno corrotta dalla teoria dominante, in tutti i suoi diversi filoni, che è ciò che sta dietro l’idea di Viale, secondo cui la politica economica di oggi patirebbe una «mancanza di soldi» e «si avrebbe paura di rompere i tabù», ostaggio delle agenzie di rating. Non c’è nessuna «oggettiva» mancanza di soldi, né si tratta di cose separate. La «mancanza di soldi» è una costrizione politica, applicata con il braccio armato delle agenzie di rating. Una legge dura come il marmo, ma tutto meno che naturale.
I denari pubblici non difettano, ma vengono resi scarsi dall’imposizione di portare il bilancio pubblico in pareggio. È una scelta precisa di classe che in Europa lega la deflazione salariale, perseguita dalla politica monetaria e dalla flessibilizzazione del lavoro, alla decurtazione del reddito sociale tramite i tagli alla spesa pubblica. È questa una scelta che Alain Parguez chiama una rareté désirée, una «scarsità» voluta e prodotta, per i rapporti di classe e di potere, anche geopolitici. Sennò ci si illude che basti ingabbiare le agenzie di rating, o uscire dall’euro, per far scomparire il problema. Che è politico e sociale, non «tecnico».
Contro ogni apparenza, il manifesto sovente riproduce una visione caricaturale della sinistra e del movimento dei lavoratori («produttivisti» e «lavoristi»), in una sorta di desiderante auspicio di una ripetizione dell’esperienza del «movimento dei movimenti». Fallito, e non a caso, nonostante la sua ricchezza. Bisognerebbe chiedersi il perché. Noi crediamo ancora che il problema sia il capitalismo, e i rapporti di classe, e rapporti di classe centrati sul lavoro – che tutto è meno che un bene comune. Checché se ne dica, la classe non è acqua.
Senza stare su questo terreno, non si capisce nulla della crisi globale, della crisi europea, della devastazione del lavoro, dell’attacco alla riproduzione. La questione è l’appropriazione dei beni comuni solo in conseguenza delle modalità della produzione e riproduzione capitalistica. Se qualcuno crede che il primo piano di discorso «spiazzi» il secondo, è fuori strada: si sveglino i sognatori. Ed è su questo terreno che la questione del genere e la questione della natura possono essere affrontate, incrociando naturalmente la questione del lavoro.
È impossibile prescindere dal lungo e paziente lavoro della critica e della lotta che ci attendono. Una critica e una lotta che nascono in un momento e in un luogo precisi: la messa in questione, nelle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, di «cosa», come» e «quanto», e «dove» produrre. Una «tradizione» che forse a tutt’oggi è più ricca di molte delle «novità» che insegue il manifesto. Certo non se ne esce se non con una riattivazione del conflitto di classe in senso stretto, non affogandolo in un generico movimentismo; e con un intervento politico forte sulla composizione della produzione, non rimuovendo la questione con i giochi di prestigio. È di questo che si dovrebbe ragionare. Non dei «soldi che mancano» o delle ennesime confusioni sul reddito e il lavoro. Il manifesto dovrebbe aprire una discussione vera, per andare avanti, non indietro: riproponendo stili di ragionamento «forte», su una scala almeno europea. E a quella discussione siamo disponibili.
Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi, Massimiliano Tomba, Giovanna Vertova

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