Come e perché un raffinato giovane intellettuale, rampollo di famiglia borghese, figlio di un accademico di fama, diventi uno dei più truci gerarchi in camicia nera, capofila dell’estremo fascismo, è il problema che si pone l’ennesima biografia di Alessandro Pavolini (di Giovanni Teodori, pubblicata da Castelvecchi editore). Ma senza saper fornire una risposta.
Come e perché un raffinato giovane intellettuale, rampollo di famiglia borghese, figlio di un accademico di fama, diventi uno dei più truci gerarchi in camicia nera, capofila dell’estremo fascismo, è il problema che si pone l’ennesima biografia di Alessandro Pavolini (di Giovanni Teodori, pubblicata da Castelvecchi editore). Ma senza saper fornire una risposta. Il problema se l’erano posto i più navigati biografi precedenti (curiosamente, mai uno storico professionista, ma sempre dilettanti di Clio, che peraltro questo giovane studioso utilizza abbondantemente), e rimane insoluto. Con i suoi limiti e le sue ingenuità, il libro, di facile lettura, pone anche un altro quesito, per noi oggi più rilevante: come sia stato possibile per il fascismo, un movimento e un regime di improvvisatori, cialtroni, energumeni violenti o intellettuali traditori della “missione del dotto” , abbia potuto raggiungere il potere e rimanervi per 23 anni. Un problema che il giovane autore di questo libro pone, implicitamente, in termini di avvertimento per il nostro triste presente, quando ancora una volta l’improvvisazione di dilettanti allo sbaraglio rischia di portare il Paese nel baratro: non sarà la guerra mondiale (non dimentichiamo peraltro le guerre in corso, l’ultima delle quali nella nostra ex colonia libica), non saranno le leggi razziali (e non dimentichiamo la vergognosa politica contro i migranti, che pure sono la nostra grande risorsa per il futuro), ma è un baratro di caduta radicale di ogni etica pubblica, di ristagno economico, di disoccupazione giovanile, di perdita di funzione della scuola pubblica, di catastrofe della ricerca scientifica.
PAVOLINI, esponente del fascismo “colto” negli anni giovanili, imbattutosi in Galeazzo Ciano, fece una folgorante carriera politica, grazie al potente protettore, che, paradossalmente, egli contribuì in modo decisivo a mandare a morte, impedendo che la richieste di grazia inoltrate da Ciano a suo suocero Mussolini, giungesse a destinazione, così come impedì alla moglie Edda (figlia di Benito) di incontrare il padre per impetrare la salvezza della vita di Galeazzo, fucilato a Verona, l’11 gennaio ’44, assieme agli altri “traditori” della notte del 25 luglio. Si era ormai trasformato in una belva umana, uno dei capi più efferati e fanatici della Repubblica di Salò, che emanava ordinanze minaccianti fucilazioni a destra e manca. Capo delle Brigate Nere (“un’accozzaglia di criminali e di torturatori”) si rese responsabile personalmente di gravissimi crimini contro antifascisti e civili, rispetto a cui le stesse SS apparvero talora sconcertate e tentarono di prendere le distanze; riuscì a diventare, scrive Teodori, “insieme a Mussolini, l’uomo più odiato d’Italia”. Quando fu giustiziato, insieme col suo duce, il 28 aprile ’45, ben pochi lo piansero.
E dire che era stato non molto tempo prima uno degli uomini più potenti, a capo del Min.Cul.Pop, il famigerato ministero della Cultura popolare, da cui dipendevano non solo la stampa e la radio, ma il cinema, il teatro, il turismo. Pavolini decide i direttori dei giornali, controlla le notizie (quelle da dare e quelle da tacere), supervisiona la programmazione delle sale teatrali, cinematografiche e dell’EIAR, l’ente della Radio di Stato, si occupa anche della distribuzione di pellicole e della sorte individuale di giornalisti, attori, scrittori, cantanti. È l’uomo delle “veline”, che si sposano in modo grottesco con i “Fogli di disposizione” del segretario del PNF Starace anche se non mancano i conflitti tra Partito e Ministero, che non sempre il duce è in grado di sanare. Il totalitarismo, del resto, si fonda su una pluralità di poteri spesso confliggenti, senza un vero centro.
MA, A DIFFERENZA di altri sistemi dittatoriali, l’Italia mussoliniana si rivela il Paese di burletta, tra gerarchi che fanno il salto nel cerchio di fuoco e il ministro che si preoccupa di evitare, sui giornali, fotografie di persone che si stringono la mano: i fascisti devono salutare romanamente, e non devono neppure più pensare che si possa salutare in altro modo… Quello che soprattutto va posto in luce è la costruzione di una figura di “giornalista” non come professionista al servizio dell’informazione, ma funzionario al servizio del potere. Un modello, ahinoi, destinato a grande fortuna che spiega come i Minzolini di oggi siano nipoti dei Pavolini di ieri.
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