SESTO SAN GIOVANNI (Milano) — A pensarci bene càè anche un anniversario da ricordare. La chiusura del forno T3 della Falck avvenne proprio in questi giorni, quindici anni fa. Come sempre fu celebrato il consueto funerale sull’epoca delle ciminiere che si chiudeva, sulla capitale dell’acciaio e della siderurgia che diventava una distesa sconfinata di aree dismesse.
SESTO SAN GIOVANNI (Milano) — A pensarci bene càè anche un anniversario da ricordare. La chiusura del forno T3 della Falck avvenne proprio in questi giorni, quindici anni fa. Come sempre fu celebrato il consueto funerale sull’epoca delle ciminiere che si chiudeva, sulla capitale dell’acciaio e della siderurgia che diventava una distesa sconfinata di aree dismesse. Non c’è niente da fare, Sesto San Giovanni è prigioniera della sua storia. Poco importa se oggi per guardare in faccia la città è meglio farsi un giro al Carroponte, vecchio quartiere industriale che in ordine di apparizione allinea la Vetro Balsamo, dalla quale escono 360 mila bottiglie al giorno, un Ipercoop, la sede di alcune agenzie di viaggi, una multisala, uno dei più grandi teatri all’aperto d’Italia.
Tutto inutile. Ogni volta che se ne parla viene fuori quel che è stato, con l’inevitabile definizione di «Stalingrado d’Italia» che a Sesto rimane addosso come una seconda pelle. «In fondo non è sbagliato. Quella realtà operaia e industriale non esiste più, ma i suoi frutti rimangono. E tra questi, un ceto politico-sindacale che ha sempre fatto vanto del proprio rigore e della propria onestà» .
Carlo Ghezzi è un esterno, il presidente della Fondazione Di Vittorio, un vecchio sindacalista della scuola milanese che spesso litigava con i metalmeccanici di Breda e Falck, ammirandoli di nascosto. Ma forse da fuori si vede meglio, si capisce qual è la posta in gioco in questo brusco risveglio causato dalle accuse a Filippo Penati, l’ultimo ragazzo di casa, che ha preso il nome dal nonno, morto in un campo di concentramento e ricordato da una targa in via Volta, nella Sesto vecchia, dove abitava.
«Penati è roba nostra» sussurra Giuseppe Granelli. C’è ancora, il Granèl, nonostante gli insulti dell’età. Era il protagonista di «Una vita operaia» , il libro scritto da Giorgio Manzini che raccontava di lui e delle sue lotte, entrato bambino nel 1937 alla Falck e uscito nel 1983 dallo stesso cancello. «Adesso — sorride — ogni episodio è buono per discutere la nostra storia. Pazienza, tanto io sono quasi completamente sordo» . Della città d’acciaio non resta che l’orgoglio della diversità.
Qui hanno vissuto Armando Cossutta e Fausto Bertinotti, che abitavano uno di fronte all’altro in via Gramsci, la segretaria provinciale Fiom Susanna Camusso era di casa al circolo Cairoli, il ritrovo delle tute blu a lungo diretto dal papà di Penati, ex operaio della Redaelli.
Il sestese d’adozione Antonio Pizzinato, attuale presidente dell’Anpi Lombardia, viene ricordato come l’ultimo segretario generale Cgil che al mattino leggeva la Pravda come primo giornale, ed eravamo già negli anni Ottanta. Ma nell’autunno caldo del 1969 schierò gli operai di Sesto contro gli aumenti di categoria uguali per tutti, sostenendo che andassero distribuiti in rapporto a qualifiche e mansioni. Perse a livello nazionale, ma aprì la strada a una linea riformista seguita dai suoi successori.
La finestra dell’ufficio di Sergio Cofferati alla Pirelli guardava la strada che separava Sesto da Milano. «Per un lungo arco di tempo è stata la città che incarnava il mito operaio. Ma le attuali vicende non riguardano quella Sesto e la sua tradizione, quanto piuttosto il suo cambiamento. Mi sembra una distinzione importante» .
Sui baffoni di Giorgio Oldrini si è posato un velo di malinconia. «Brutto momento» dice il sindaco, che non ha mai nascosto i suoi difficili rapporti, eufemismo, con Penati. «Sesto ha un legame viscerale con la propria tradizione e gli uomini che la rappresentano. Ci conosciamo tutti, a farla breve. Questa vicenda coinvolge persone e luoghi che significano molto per la città e per le sue certezze» .
Oldrini, figlio di Abramo, che governò Sesto dal 1946 al 1962, è troppo galantuomo per affondare il coltello nelle spalle del suo predecessore, operazione alla quale molti si stanno dedicando. «Fu già inquisito una volta, e ne uscì assolto. Prima di intonare il de profundis sarebbe il caso di prendere tempo» . L’ultima frase è quasi un saggio di orgoglio sestese. Ma viene pronunciata sottovoce, con la consapevolezza che la corsa a prendere le distanze da Penati è già partita. Basta ascoltare le voci dei vecchi militanti al Rondò di Sesto, davanti alla storica sede del Pci: gli piacciono troppo gli affari, è un socialista travestito… Beato il vecchio Granelli, che almeno non ci sente più.
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