Le potenzialità  visive nascoste dentro i suoni

MOSTRE Artisti russi a Roma per «Artsound»
In un dittico espositivo allestito in due spazi romani, un percorso di video-installazioni sulle sonorità  come elementi ironici di perturbazione delle immagini Le opere multimediali di Tarasov e Zakharov messe a confronto con le sperimentazioni degli anni ’20 in Urss

MOSTRE Artisti russi a Roma per «Artsound»
In un dittico espositivo allestito in due spazi romani, un percorso di video-installazioni sulle sonorità  come elementi ironici di perturbazione delle immagini Le opere multimediali di Tarasov e Zakharov messe a confronto con le sperimentazioni degli anni ’20 in Urss

 Il suono come elemento ironico di perturbazione visiva e, insieme, strumento di distanziamento critico rispetto alla pervasiva affermatività delle immagini. È su questa ipotesi teorica che si fonda il dittico espositivo Artsound (a cura di Vitalij Pacjukov) ospitato da due diversi spazi romani: le sale dell’Auditorium (dove sarà visibile fino al 13 luglio) e le stanze raccolte e suggestive di RAM radioartemobile (nell’ambito di «Camere XV», fino al 29 luglio). Coinvolgendo alcuni tra gli artisti russi contemporanei più attenti alle dinamiche immateriali del suono (Vladimir Tarasov, Leonid Tishkov, Vadim Zakharov e il N.Y. Group), il progetto illustra le cangianti potenzialità visive del dato acustico, proponendo un percorso articolato di video-installazioni che non risente affatto della sua insolita disseminazione topografica, grazie anche all’estrema coesione del disegno curatoriale. Un sottile gioco di rimandi a distanza è infatti la cifra essenziale di questa mostra incentrata sulla capacità del suono di rendere percettibili le potenzialità nascoste dell’immagine, ovvero ciò che il visibile non rivela in piena evidenza.

Così è ad esempio in Gobustan (2009), la spiazzante installazione-video di Tarasov in cui lo spettatore si imbatte appena varcata la soglia dell’Auditorium. Qui l’autore – percussionista jazz di fama internazionale – elegge a proprio temporaneo strumento una gigantesca pietra cava che si erge nei pressi di Baku, utilizzata dagli sciamani come tamburo sacro fin dalla notte dei tempi. Ma a risuonare su questo vibrafono naturale non sono primigeni ritmi pagani, bensì le armonie dell’unico strumento ammesso dalla liturgia ortodossa oltre alla voce umana, ovvero le campane. Oscillando virtuosisticamente tra sincretismo e sinestesia, montaggio e dissezione, Tarasov dimostra come l’ascolto possa diventare una forma alternativa e complementare al vedere, accogliendo significati che nell’immagine sono soltanto impliciti. Lo stesso procedimento riaffiora nel video Septima (2007) dove il profilo ideale di Venezia viene evocato a partire dalla colonna sonora forse a lei più connaturata, ovvero lo sciabordio ipnotico di una gondola, amplificato dal silenzio notturno. Registrando come un etnografo l’accordo di settima che si produce dall’involontaria oscillazione dello scafo, l’artista imprigiona nella struttura acustico-visiva del video ciò che Pacjukov nel catalogo definisce «un eterno sfarfallio, paradossale come un koan zen», svelando nel contempo come la casualità empirica possa talvolta competere con la regolarità di un canone.
Costringere l’immagine a rivelare la propria «voce» è anche l’intento del N.Y. Group (Nadya&Yuriy), giovane formazione artistica moscovita che esplora le potenzialità intrinseche del corpo di farsi strumento. Nell’installazione video Il corpo che canta (2010) le inquadrature ravvicinate di frammenti anatomici pressoché irriconoscibili si compongono a formare un’orchestra sui generis che inquieta per la sua straniante palpabilità. L’atmosfera introspettiva delle «Camere» di RAM si rivela invece lo sfondo ideale su cui recepire le due installazioni-video di Leonid Tishkov. Qui il suono si fa strumento per evocare il mondo perduto dell’infanzia, il panorama innevato degli Urali dove l’artista è nato nel 1953, le occorrenze minime di un universo onirico e intensamente personale. Ne è un esempio Solveig (2004), dove il paesaggio interiore di questo figlio del Nord viene visualizzato in un diorama quasi infantile e il legame con la terra natale si materializza nel moto circolare di uno sciatore solitario che si aggira senza fine intorno alla superficie riflettente di un lago.
Più complesso il discorso per le due opere di Vadim Zakharov, dove l’elemento sonoro non si fonde mai all’immagine, ma scivola come in superficie, salvaguardando la propria irrinunciabile autonomia e, al contempo, approfondendo la portata dei mitologemi culturali manipolati dall’artista. Qui l’eventualità stessa di un’esperienza sinestetica «ingenua» è disinnescata a priori dal distacco raziocinante con cui Zakharov è solito assemblare e rielaborare i tasselli della sua metanarrazione di autore. Così è, ad esempio, in Il Pastore Morto cattura gli angeli sopra Roma mentre posa per Michael Grimaldi (2008), dove il corpo esanime del Pastore (uno degli alter ego dell’artista moscovita), eternato nella sua immobilità sia dall’occhio meccanico della videocamera, sia da quello più partecipe del collega italo-americano Michael Grimaldi, viene immerso nelle traiettorie ossessive e imprevedibili degli storni capitolini che gli svolazzano intorno a mò di cornice. Pur sopraffatto dalla densità emotiva e concettuale della Città Eterna, il Pastore è ben lungi dal rinunciare al suo ruolo di guida spirituale: un filo sottile legato al dito a guisa di sensore gli consente infatti di continuare a captare le presenze angeliche e ornitologiche nel cielo che lo sovrasta, mentre la colonna sonora che accompagna la sua impercettibile «caccia» (l’Amleto di Shostakovich, il Salve regina e un’aria dal film Farinelli il castrato) non può che sottolinearne l’impotenza e, insieme, l’ardire donchisciottesco. Oppure – al contrario – l’artista, prigioniero delle sue visioni, si è trasformato in una marionetta immota, che il mondo esterno tenta di rianimare attraverso garbati, lievissimi strappi? Come nell’estetica barocca, anche nella installazione-video di Zakharov si assiste a una ludica proliferazione dei punti di vista, a una ironica inversione dei ruoli tra soggetto e oggetto che mira a mettere in discussione il concetto stesso di azione.
Fin qui per quanto riguarda gli artisti contemporanei russi e il loro confronto con la dimensione multimediale esplorata già negli anni Sessanta dalla videoarte in Occidente. Ma un ulteriore e indubbio merito di Artsound è quello di storicizzare le loro esperienze in una prospettiva diacronica, riaprendo una pagina finora negletta della sperimentazione avanguardistica. Mi riferisco alla scelta di ospitare all’interno della mostra romana un frammento dell’esposizione Generazione Z. Pionieri del suono in Russia negli anni Venti, tenutasi a Pietroburgo nella primavera del 2010 a cura da Andrej Smirnov. Osteggiati negli anni Trenta da Stalin e a lungo dimenticati, geniali sperimentatori quali Evgenij Sholpo o Nikolaj Vojnov introducono con le loro bizzarre invenzioni – rispettivamente il variofono e il «suono cartaceo» – un approccio all’interazione tra suono e immagine che si rivela opposto rispetto a quello attualmente in auge. Nella Russia rivoluzionaria infatti non si trattava tanto di pervenire a una visualizzazione del suono, quanto piuttosto di utilizzare concretamente schemi visivi che riproducessero i profili delle onde sonore, per giungere a quella meccanizzazione artificiale della musica perseguita dal progetto produttivistico e sovraindividuale dell’avanguardia.
Riemersi solo di recente dall’oblio (ne è una prova anche la mostra Lénine, Staline et la musique, allestita l’anno scorso alla Cité de la Musique di Parigi), questi singolari documenti d’archivio ci riportano a un tempo remoto, dove il «suono grafico» rientrava all’interno di un programma politico ancor prima che estetico, finalizzato a rimuovere ogni eventuale elemento di disordine introdotto nell’esecuzione dall’arbitrio dell’interprete.

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