«Dalla crisi un altro mondo»

UNITI CONTRO LA CRISI. Ex ragazzi del 2001 e giovani del 2011, il movimento oggi
Obiettivo: un pensiero critico egemone rispetto alla logica del profitto privato

UNITI CONTRO LA CRISI. Ex ragazzi del 2001 e giovani del 2011, il movimento oggi
Obiettivo: un pensiero critico egemone rispetto alla logica del profitto privato
GENOVA. La struttura è molto bella, disegnata da Renzo Piano. Il posto, i genovesi, lo chiamano ancora Caricamento. Ma qui il porto non c’è più, «si carica» al massimo qualche turista voglioso di vedere archeologia portuale.
Sotto il tendone veleggiante un campione di umanità che non vedete mai nei Tg (se non in qualche spezzone degli scontri di dieci anni fa), fatta di sindacalisti «non allineati», ex ragazzi del 2001 e giovanissimi dei centri sociali, anziani e lungimiranti preti missionari (don Gallo e Alex Zanotelli, come dice qualcuno «quasi una frazione del Vaticano»), protagonisti dei referendum sull’acqua e dei conflitti sui beni comuni. Il tema è semplice, come quando si è costretti a misurarsi coi “massimi sistemi”: è possibile salvare il mondo? I dieci anni non sono passati invano. Addio vaghezze desideranti su «un altro mondo è possibile», avanti la durezza estrema di «un altro mondo è necessario»: questo, concreto, puzzolente, in dismissione e smantellamento.
Ma c’è un ma. I vertici globali, i “decisori” del mondo, dicono di voler realizzare lo stesso scopo. A Durban, in Sudafrica, a novembre, cercheranno di fissare le norme che poi tutti dovrebbero eseguire. Zitti zitti si sono confrontati già due volte (in Thailandia e Germania) per smussare le divergenze. E quel che ne viene fuori è l’esatto contrario, ovvero la privatizzazione di tutto per «mettere a valore» quella cosa «inutile» che è la natura. Multinazionali, grandi potenze, organismi internazionali stanno mettendo a punto un dispositivo fatto di «mercato, green economy e privatizzazioni». Questo processo può essere osservato da diverse angolazioni analitiche. Per qualcuno è un «tentativo di riorganizzazione del capitale» (come se fosse un unico corpo dotato di logica), per altri è l’ultimo business ipotizzabile da un sistema produttivo che non riesce a trovare una merce-pilota della crescita globale (come l’automobile nel dopoguerra) né tantomeno un’energia sostitutiva del petrolio. Comunque sia, l’aggressione ai «beni comuni privi di padrone» è potente, palese, disperata. Il mix risultante dalla «finanziarizzazione» della natura (come vedete la difesa delle foreste in mano alle corporation del legno? O la commercializzazione dei diritti di emissione del carbonio? O la libertà di fare piantagioni di pannelli solari in pianura al posto delle colture alimentari?) può essere letale anche nel giro di un decennio.
Quelli di Rigas (Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, nata un anno fa) si propongono di portare a Durban l’esperienza italiana, che ha avuto nei referendum e nell’opposizione popolare all’alta velocità in Val di Susa due momenti di grande valore politico, capaci di coniugare radicalità di obiettivi e dimensione maggioritaria di massa. Perché non si tratta più di avere solo un pensiero “critico” dell’esistente, ma un pensiero in grado di essere “egemone”; in modo da generare una prassi sociale praticamente alternativa alla logica del profitto privato.
Gianni Rinaldini, storico segretario generale dei metalmeccanici, lo dice con chiarezza: «Occorre individuare gli elementi che costituiscono contemporaneamente un vincolo sociale e un indirizzo per le scelte di politica economica e industriale». Perché la crisi – specie davanti al massacro sociale disegnato dalla manovra economica del governo, e che dovrebbe aggravarsi nei prossimi anni – contiene sempre in sé «il rischio della frammentazione delle risposte». Insomma l’antico dilemma «dalla crisi si esce tutti insieme per stare meglio, o ognuno per conto suo calpestando tutti»?
La dimensione di questi processi è ormai tale da spazzar via molte illusioni e almeno un merito l’ha avuto: ha messo fine all’eterna divisione – a sinistra – tra “anime belle” ambientaliste e “realisti d’acciaio” industrialisti. Il profitto cerca di mangiarsi il mondo per sopravvivere, e quindi «il capitalismo diventa incompatibile col pianeta». Ma solo il secondo può sopravvivere senza l’altro. E questo porto che «non carica» più smette di essere una metafora per diventare l’esempio della città più anziana d’Italia, dove le uniche attività che non hanno risentito della crisi sono le badanti per gli anziani e, naturalmente, le pompe funebri.

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