La domanda di Genova

Il decennale del G8 2001 interroga sulla democrazia. Negli incontri di questi giorni, l’ansia di mettersi in sintonia coi tempi. Si parla di finanza, dei referendum, dei «movimenti di indignazione»

Il decennale del G8 2001 interroga sulla democrazia. Negli incontri di questi giorni, l’ansia di mettersi in sintonia coi tempi. Si parla di finanza, dei referendum, dei «movimenti di indignazione»

 La fatica del decennale – un mese di incontri, manifestazioni, assemblee – è finita. A lavorarci, soprattutto, associazioni, organizzazioni e persone che nel 2001 fecero il Genoa social forum. Oggi, forse, un poco spiazzate da quel che la corrente nata allora nonostante le aggressioni di Stato ha scavato, cercandosi una strada nuova. Ma c’è un tema – una necessità e un rompicapo – che lega tutto. Dalla tenacia – in buona parte premiata, tranne nel caso dell’omicidio di Carlo Giuliani – nel ricercare le responsabilità, la verità, su quel che accadde, anche nei tribunali, ai problemi di oggi, quel che nel 2001 avevamo previsto e si è materializzato. Il decennale si può riassumere in una domanda sulla democrazia.

Cortile monumentale di Palazzo Tursi. In un angolo sono seduti, di fronte a un po’ di giornalisti radunati dall’infaticabile Andreina Albano, ufficio stampa dell’Arci, una giovanissima giornalista palestinese di Gaza, un sindacalista indipendente egiziano, un altro sindacalista indipendente tunisino, un avvocato egiziano e un marocchino di quelli che lavorano al prossimo Forum sociale mondiale, che si terrà a Tunisi: sangue nuovo nell’organismo stanco dei Forum. E’ lui, Hamouda Hsoubi, a dire: «Le nostre non sono rivoluzioni. Sono movimenti di indignazione, siamo indignati proprio come gli spagnoli della Puerta del Sol e i greci di Piazza Syntagma. Perché la crisi della democrazia è globale».
Grande cupola nel Porto Antico, archeologia del G8 2001: uno spazio in cui entrano almeno mille persone. Venerdì pomeriggio, pieno zeppo. Di giovani, specialmente dei centri sociali ma non solo. Lo schema è tradizionale: palco alto, «interventi» in sequenza, attenzione per i più noti e meno per gli altri, qualche tono da comizio. Ma nella scatola vecchia si mettono ingredienti nuovi. «Uniti contro la crisi» vuole mutare pelle e diventare «Uniti per l’alternativa». Forse anch’essa una parola logora, l’alternativa. Ma nei discorsi di Luca Casarini e Maurizio Landini, di Giuseppe De Marzo e Vilma Mazza, di Francesco Raparelli e Gianni Rinaldini fa irruzione una vera ansia di mettersi in sintonia con i tempi. Con i referendum: l’acqua e i beni comuni, i cittadini organizzati fuori dai partiti, il crescente rifiuto dello «sviluppo». Movimenti civili che sbattono contro il muro della «a-democrazia», come dice Vilma. In un paese in cui la democrazia non è negata solo ai cittadini, ma insieme, e coerentemente, ai lavoratori, come spiega Landini. Perciò si deve «andare oltre noi stessi», dice Casarini. La rete Rigas (per la giustizia ambientale e sociale) entra nel cerchio. Collegare, parlare ai 27 milioni che hanno votato sì ai referendum. Ricostruire la democrazia. I ragazzi in platea applaudono forte. In un angolo, silenzioso, c’è un Nichi Vendola in maglietta. Come si combina la democrazia comunitaria «insorgente» con le fessure che si aprono nella democrazia della rappresentanza?
Saletta del sottoporticato di Palazzo ducale, riunione poco numerosa ma dalle grandi aspirazioni. Parla Riccardo Petrella, in sala è seduta Susan George. Per una volta Riccardo non parla di beni comuni – ne ha già parlato in un altro momento – ma di finanza. Spiega come la democrazia richieda – ad evitare l’umiliazione quotidiana che gli Stati nazionali, la stessa Europa, subiscono dalle agenzie di rating e dagli indici di Borsa – che si proceda per le spicce. Bisogna mettere fuori legge i derivati finanziari. E bisogna mettere fuori legge Moody’s e Standard & Poors e soci, le cui «quotazioni» possono decidere delle sorti di un popolo, come in Portogallo e in Grecia. Il tono di Petrella è come sempre soave, ma il senso delle sue parole è drammatico. E urgente.
Stessa saletta del sottoporticato, qualche giorno prima. Tommaso Fattori, di Transform, insieme a Paolo Cacciari, dell’associazione per la decrescita, allo stesso Petrella e molti altri discutono di quel che i referendum suggeriscono. Quel che suggeriscono è la «costituzionalizzazione dei beni comuni», anzi una «società dei beni comuni». Petrella, insieme a Rodotà e altri, sta lavorando a una proposta di riforma costituzionale: per scrivere solennemente che i beni comuni sono da sottrarre al mercato, come hanno detto i milioni di sì per l’acqua. Ma questo presuppone una società in grado di auto-governare i beni comuni. E se la politica è al servizio dell’economia e della finanza, allora ce ne vuole un’altra, di politica.
E’ troppo grande l’auditorium di Palazzo rosso per le poche decine di persone che partecipano all’assemblea nazionale delle associazioni di migranti e antirazziste. Più che un’assemblea, una riunione, che nelle intenzioni avrebbe dovuto ricordare il fiume in piena che lo stesso giorno, alla stessa ora, invase Genova dieci anni fa. Tutti pieni di speranze dietro lo striscione «Libertà di movimento, libertà senza confini». E oggi? Meglio lasciar perdere i bilanci e mettersi in testa di ricominciare, magari dalla giornata di mobilitazione globale per i diritti dei migranti il prossimo 18 dicembre. La democrazia non ha frontiere.
Stesso palazzo, stessa sala, tre giorni dopo. Questa volta è il pienone e non solo perché, nel frattempo, la città si è riempita di manifestanti. Ad accogliere «giovani delegati, studenti, precari e protagonisti delle lotte del Mediterraneo» è la Fiom che vuole parlare di «Democrazia e diritti per costruire il futuro». Ma tra i lavoratori la democrazia e i diritti ultimamente restano fuori dai cancelli anche se, almeno in questa sala, alla disperazione si sostituisce una gran voglia di non rassegnarsi. A dirlo è, per tutti, Gianni Barozzino, licenziato, poi reintegrato e di nuovo cacciato dalla Fiat di Melfi.
«Non pulire questo sangue», un nuovo film sulla Diaz delocalizzato in Romania (e che ha già suscitato qualche polemica) è uno dei tanti che ancora oggi, a dieci anni di distanza, «catturano» l’attenzione. Haidi Giuliani, assieme a Progetto Comunicazione, ha scelto la chiave delle nuove culture «resistenti» per Genova 2011: un intero mese di proiezioni, teatro, musica, nuovi libri e ogni altra produzione culturale che ha a che fare con i dieci anni di Genova.

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