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La coscienza operaia a Melfi

Il sindacalista Barozzino racconta la sua lotta dentro la Fiat.    “Le regole della Sata: mai ribellarsi alla fatica, vietati malattie o infortuni seri”. Licenziato per sabotaggio, è stato reintegrato dal tribunale ma l’azienda si oppone

Il sindacalista Barozzino racconta la sua lotta dentro la Fiat.    “Le regole della Sata: mai ribellarsi alla fatica, vietati malattie o infortuni seri”. Licenziato per sabotaggio, è stato reintegrato dal tribunale ma l’azienda si oppone

Una fabbrica è proprietà privata. Non si entra in una fabbrica se non per lavorare. Una fabbrica è ancora il luogo del conflitto di classe. Sì, quello dell´Ottocento, del Novecento e anche del Nuovo secolo. Quello tra operai e padroni. Sempre quello. Conflitto fintamente sopito, oggi. Vissuto in silenzio tra rancori e umiliazioni, rassegnazioni, fatica, ricatti. Paure. Durante i turni interminabili di notte, durante i ritmi pesantissimi. E qualche momento di ribellismo. Bisogna lavorarci e entrarci in una grande fabbrica, per capire.
Giovanni Barozzino ha deciso di raccontarcela – brutalmente – la vita in fabbrica. Nella fabbrica modello di Melfi, Basilicata, sud Italia. La fabbrica più produttiva d´Europa. La fabbrica integrata, quella della partecipazione, del nuovo modello produttivo ergonomicamente compatibile. Degli operai senza la tuta blu: verde-amaranto l´avevano scelta. Il “prato verde” della produzione snella, del toyotismo all´italiana senza storia sindacale, dell´ultimo romitismo, del just in time all´inizio degli anni Novanta. Della fabbrica costruita con gli aiuti statali e sotto la minaccia di trasferire tutto in Portogallo. La fabbrica dei diritti negati. Con la metà degli operai – dopo vent´anni dall´apertura dello stabilimento – con ridotte capacità lavorative. La nuova fabbrica del «signor Sergio Marchionne», ora. Giovanni Barozzino, classe 1964, è un operaio, figlio di operaio. E´ stato anche in Canada a fare l´operaio. E´ un sindacalista della Fiom. Sindacalista estremista, secondo la vulgata. Contrapposto a quelli moderati, perlopiù filo aziendalisti. Ragionevoli e spesso complici.
Giovanni Barozzino ha scritto un libro per raccontare la sua storia e la vita nella fabbrica che non lo fa lavorare più. Lui è uno dei tre operai licenziati dalla Fiat (che a Melfi si chiama Sata perché le newco non sono un´invenzione di Marchionne) un anno fa con l´accusa di aver sabotato la produzione, di aver impedito il passaggio di un carrello. Il giudice del lavoro l´ha reintegrato riconoscendo un comportamento antisindacale da parte dell´azienda. E poiché questa è la ragione del suo reintegro, la Fiat non lo fa lavorare in linea ma gli ha messo a disposizione una saletta sindacale. Lontano dai suoi compagni che dovrebbe tutelare e rappresentare. Sindacalista a distanza. Confinato e stipendiato.
Il libro di Barozzino si intitola «Ci volevano con la terza media» (Editori Internazionali Riuniti). Perché è da lì che si parte. Da quelle visite mediche «a dir poco imbarazzanti», con «infiniti colloqui con dottori, psicologi, ingegneri, ortopedici, oculisti». Solo per fare l´operaio di linea. L´operaio massa senza soggettività politica. Eppure siamo nel 1995. Scrive Barozzino: «La Sata cercava carne fresca, giovani e inesperti da inserire nel suo laboratorio. Ci volevano così. Giovani e ignoranti. Ci volevano con la terza media». Prima il contratto di formazione e lavoro, poi l´assunzione a tempo indeterminato. Tutti under 32. «Durante il contratto di formazione – ho vergogna anche solo a ricordarlo – ho messo la mia dignità sotto i piedi pur di conservare il posto di lavoro. Ho lavorato finanche con la febbre. Quelle condizioni erano disumane. E infatti in tanti non ce l´hanno fatta». E ancora: «Durante la “doppia battuta” notturna (dodici notte consecutive, ndr), mangiavo a malapena una volta al giorno. Avevo sonno quando dovevo lavorare e facevo il sonnambulo quando dovevo dormire. Mal di testa e dolori dappertutto». Vita di fabbrica. Di quella fabbrica dove – dice Barozzino – vigono i “comandamenti Sata”: 1) vietato ribellarsi alle postazioni massacranti; 2) vietato fare malattia; 3) vietato infortunarsi.
Si sfarina così la solidarietà nella comunità. Ciascuno per sé. Zitti e obbedienti. Isolati e gonfi di paura. Perché ci sono anche le ritorsioni familiari per i sindacalisti più agitati. Nel 2003 la Fiat emette novemila provvedimenti disciplinari. Umiliazioni private e pubbliche come quella della lettura collettiva delle contestazioni aziendali. Di accuse per presunte negligenze pure quando non si era in fabbrica perché infortunati. «Tutto quello che succedeva non riuscivo a spiegarmelo. Forse perché eravamo una classe operaia ancora giovane o forse perché eravamo tanti operai, ma non ancora una classe».
Nel 2004 arriva la “Primavera di Melfi”, la rivolta contro quelle condizioni di lavoro (lavoro?), contro i salari più bassi rispetto al resto del gruppo automobilistico. Ventuno giorni «di resistenza». «Non eravamo tutti rassegnati a questo sistema di cose. Provavamo a resistere». E vincono gli operai, nonostante le divisioni sindacali, nonostante un´opinione pubblica inizialmente non favorevole.
Poi arriva «il signor Marchionne», quello che «vuol far credere che in Italia siano proprio gli operai che non vogliono lavorare. Mi chiedo se c´è davvero qualcuno che può credere a una simile fandonia». E arriva la notte del 6-7 luglio 2010. Un problema nella linea. Un diverbio. Parole grosse. Lo sciopero. L´accusa pretestuosa di sabotaggio: «infame contestazione». La sospensione e la lettera di licenziamento. L´umiliazione. La difesa della propria dignità. La protesta estrema, tre giorni e tre notti sulla Porta di Venosina di San Nicola di Melfi. La solidarietà di Napolitano. L´attenzione dei media. Per una estrema lotta operaia, contro una «vergogna vergognosa». Perché «la Fiat non è quella della pubblicità».

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