Indignarsi a Tel Aviv

LE TENDE BOCCIANO NETANYAHU
Un «miracolo economico» costruito con la riduzione di salari e stato sociale. Gli israeliani non ne possono più e sfidano i lacrimogeni per dire basta. E c’è anche chi denuncia: l’occupazione della Palestina ci dissangua

LE TENDE BOCCIANO NETANYAHU
Un «miracolo economico» costruito con la riduzione di salari e stato sociale. Gli israeliani non ne possono più e sfidano i lacrimogeni per dire basta. E c’è anche chi denuncia: l’occupazione della Palestina ci dissangua

 TEL AVIV.Gli «indignados» di Tel Aviv resistono. L’accampamento di viale Rothschild non smobilita, nonostante le cariche della polizia a cavallo di sabato sera e le decine di fermi effettuati tra le oltre 20mila persone che hanno sfilato nelle vie del centro per protestare contro le «case d’oro», gli affitti stratosferici, il costo della vita insopportabile e a favore dell’aumento dei salari e di ciò che rimane dello stato sociale. Al contrario la mobilitazione si intensifica. Ieri centinaia di manifestanti hanno bloccato alcuni degli incroci stradali più trafficati a Tel Aviv e in altre città, come Haifa e Rosh Hain. Un campo di tende improvvisato è spuntato all’improvviso accanto alle Torri Azrieli mandando in tilt il traffico. Ma nessun tassista e automobilista ha protestato, il consenso alle iniziative degli indignati è ampio in tutto il paese. Tutti si sentono nella stessa barca. Proteste di questa portata non si vedevano da tempo nella più importante delle città israeliane, nota più per la vita notturna e lo stile liberal dei suoi abitanti che per le rivolte contro i governi. Ormai sono centinaia le tende allineate che partono dalla «bianca» piazza Habima, a poche centinaia di metri dalla centralissima via Dizengoff. Ci sono gli studenti, giovani disoccupati, famiglie intere, gli israeliani poveri di Holon e Bat Yam qualche homeless. E, soprattutto, c’è la classe media istruita che fino a qualche anno fa viveva nel benessere e che ora precipita, trascinata giù nel baratro dall’ansia di non arrivare alla fine del mese. Case a peso d’oro Il costo della vita è salito oltre il 15% negli ultimi anni. L’acquisto di un’abitazione è un’impresa eccezionale per i giovani o una famiglia di 4-5 persone, quando i prezzi al supermercato sono tra i più alti dei paesi occidentali e le tasse da pagare pesanti. In Israele fare il pieno di benzina costa il 30% in più rispetto alla media europea, si paga di più soltanto in Italia. Così la protesta si allarga, coinvolge altre città, le tende aumentano ovunque e le manifestazioni arrivano davanti alla Knesset, il parlamento israeliano. Non è (ancora) una rivolta, manca una direzione politica che gli «indignati» in ogni caso rifiutano. Ma dove si spingerà la protesta di viale Rothschild nessuno può prevederlo. «Tutto è cominciato per i prezzi delle case e il costo degli affitti, paragonabili oggi a quelli di Mosca e Manhattan. Ma quelli erano solo i problemi immediati che hanno portato la gente in strada» spiega in un buon italiano Senny Rapoport, giovane fotografo di Tel Aviv rientrato qualche settimana fa da un lungo periodo trascorso a Napoli. «Il quadro è ben più grave, in particolare per le retribuzioni – aggiunge Senny – qui tanti guadagnano non più di 5.000 shekel, più o meno mille euro, che se ne vanno per il 90% nel pagamento dell’affitto e quello che rimane si spende per il cibo che (In Israele) costa il 40-70% più che in Europa». La ragione di tutto ciò è semplice, dice Senny, «il paese è governato economicamente da un gruppo molto ristretto di persone, poche imprese che controllano il mercato e fissano i prezzi». Un oligopolio che negli ultimi trent’anni ha sostituito il vecchio modello laburista di stato sociale, smantellato a picconate dagli stessi leader del Labour durante l’orgia liberista che ha segnato la vita economica di Israele in questi ultimi anni. Camici bianchi in piazza «Sono un medico condotto e posso dire che la sanità pubblica in Israele è molto buona ma i nostri salari sono bassi e questo ha spinto tanti medici ad andare verso la medicina privata racconta Miriam, in agitazione da settimane con centinaia di medici – per questo motivo lottiamo anche per salvare la medicina pubblica. In Israele tutto il sistema pubblico sta crollando, così come lo stato sociale. Ci sentiamo vicini ai giovani qui (in viale Rothschild) che sono istruiti, vanno all’università ma quando completano gli studi non trovano lavoro e la casa». Credeva di poter dormire sonni tranquilli il premier Netanyahu. Per oltre due anni si è preoccupato quasi esclusivamente di «politica estera», ossia di come far deragliare il negoziato con i palestinesi e di rilanciare la colonizzazione israeliana nei territori occupati di Cisgiordania e Gerusalemme Est, anche a costo di una rottura (che in concreto non è mai avvenuta) con l’Amministrazione Usa. A rendere più sereno il suo riposo è stata di recente la complicità greca ed europea nel silurare la Freedom Flotilla per Gaza e il sicuro veto di Barack Obama alla proclamazione unilaterale d’indipendenza palestinese alle Nazioni Unite. Ma proprio quando pensava di poter chiudere la legislatura con scioltezza, per inerzia, tra le mani gli è esplosa la questione del carovita e delle «case d’oro». Il premier non ha compreso che il recente boicottaggio popolare del sempre più costoso formaggio cottage (di largo consumo in Israele) è stato il segnale di un malessere profondo e non un’espressione isolata del malcontento dei consumatori. In Occidente esaltano il governo israeliano per la gestione dell’economia nazionale che non solo ha retto all’urto della recessione mondiale ma è cresciuta negli ultimi due anni del 4-5%, tenendo bassi i livelli di disoccupazione. Qualcuno ha anche proposto il governatore della Banca centrale d’Israele, Stanley Fischer, un alfiere dei tassi alti, come direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Ma in realtà la crescita è avvenuta solo nelle tasche di pochi perché larghi strati di popolazione si sono impoveriti sotto i colpi dell’aumento dei prezzi e delle picconate allo stato sociale inferte negli anni passati da Netanyahu (quando era ministro dell’economia) e ora dal suo «braccio armato», il ministro delle finanze Yuval Steinitz. Non sorprende perciò che un sondaggio pubblicato domenica scorsa dal quotidiano Haaret z abbia rivelato che la maggioranza degli israeliani boccia il governo per la gestione dell’economia. Un pessimo esecutivo Il 62% degli interpellati giudica «cattivo» e perfino «pessimo» l’operato dell’esecutivo nelle questioni economiche e sociali. Il premier è un liberista accanito ma il 36% della popolazione vuole la socialdemocrazia e un maggiore coinvolgimento dello Stato nelle questioni socioeconomiche. Il 31% degli israeliani ebrei afferma che la propria condizione è peggiorata e il 41% che non è cambiata. Tra gli arabi (i palestinesi con passaporto israeliano) il 75% denuncia un «peggioramento» figlio diretto delle risorse esigue che lo Stato assegna alle aree con una maggioranza di cittadini non ebrei. Netanyahu, si dice, potrebbe sacrificare Steinitz (che nel frattempo non commenta le proteste) ed è pronto ad assegnare terre dello Stato a prezzi stracciati per progetti edilizi a basso costo. Non basterà a placare la protesta. Sono in tanti a dirlo in viale Rothschild. L’accampamento di tende si allarga e con esso i temi in discussione. E qualcuno prova a far capire agli «indignati» di Tel Aviv che la loro condizione è anche figlia delle ingenti spese statali a favore delle colonizzazione nei Territori palestinesi e delle risorse enormi destinate all’occupazione e alle Forze Armate. Alcuni giorni fa tra le tende è spuntata anche quella degli «Anarchici contro il Muro», da anni in lotta accanto ai palestinesi contro la barriera israeliana in Cisgiordania. «Proviamo a far comprendere alla gente che il problema non è solo quello degli affitti e del costo delle case ma è una situazione ben più ampia legata anche all’occupazione e all’apartheid», dice Naomi Lyth, una militante di «Anarchici contro il Muro». Le reazioni sono spesso sono negative. «Parliamo della condizione dei palestinesi, del Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni contro Israele) – prosegue Naomi – cerchiamo di spiegare che tanti soffrono come soffrono i palestinesi (a causa dell’occupazione) perché troppi fondi vanno all’esercito, alle sue basi (nei Territori occupati), agli armamenti. Molti ci dicono che questa non è una questione politica ma economica. Noi insistiamo è qualcosa di più ampio».

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MADRID
M-15 è tornato, 35mila persone a Puerta del Sol

 Il movimento 15-M è tornato in forze a Madrid: domenica scorsa trentacinquemila persone hanno riempito le strade della capitale per l’oceanica manifestazione degli indignati. Sono venuti da tutta la Spagna, in treno, in autobus, pedalando in bicicletta, molti in marcia a piedi, sono «los peregrinos» che hanno attraversato il paese «pueblo a pueblo» prima di arrivare all’appuntamento. Il corteo si è snodato dalla stazione di Atocha lungo il Paseo Recolectos e fino a Puerta del Sol, dove il 15 maggio scorso nacque la protesta. La piazza della «Spanish revolution» ha battezzato ieri il suo primo «Forum sociale» per tentare di trovare soluzioni «ai difetti del sistema» e insieme riflettere sul futuro del movimento. Aperto alle 9 del mattino da alcune centinaia di indignados nei pressi del Palazzo di Cristallo del Parco madrileno del Retiro, il Forum si è animato fino a sera con i dibattiti intorno alle proposte in materia di ambiente, educazione, democrazia partecipativa, economia, cultura, sanità, temi sociali e quelli relativi alla politica internazionale.

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