Il «metodo ventennio». I «tentacoli» dell’ideologia fascista per radicare la fede totalitaria

In un libro di Alessandra Tarquini i meccanismi del consenso messi in moto dal Regime

L’illusione rivoluzionaria inculcata con la formazione: dalla scuola allo sport, dal teatro alla radio
La pianificazione del consenso nel Ventennio è descritta nel saggio «Storia della cultura fascista» (Il Mulino). E le ragioni di quella «mobilitazione diffusa e convinta» da parte degli italiani al mito di rifondazione.

In un libro di Alessandra Tarquini i meccanismi del consenso messi in moto dal Regime

L’illusione rivoluzionaria inculcata con la formazione: dalla scuola allo sport, dal teatro alla radio
La pianificazione del consenso nel Ventennio è descritta nel saggio «Storia della cultura fascista» (Il Mulino). E le ragioni di quella «mobilitazione diffusa e convinta» da parte degli italiani al mito di rifondazione.

Storia della cultura fascista, pagine 248 euro 18,00 Il Mulino
Nel tratteggiare l’ideologia fascista il libro segue tre direttrici: la politica culturale del regime, la condizione delle diverse arti e discipline, l’ideologia che contrassegnò lo stato totalitario. Guardando alla politica culturale messa in atto dal partito e dal governo fascista l’autrice individua le scelte della classe dirigente al potere in Italia dal 22 al 43; concentrandosi sugli intellettuali e sugli artisti chiarisce la portata del loro contributo al fascismo. Si delinea l’ideologia fascista come un sistema di visioni, di ideali e di miti, che orienta l’azione politica e promuove una precisa concezione del mondo.

Solo 12 su poco più di 1.200 furono i professori universitari che non accettarono di fare il giuramento di fedeltà al fascismo. È cosa nota ed è una delle ragioni di disagio della nostra Storia, che ogni tanto riemerge e che è bene non dimenticare. Il libro di Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, da poco uscito per il Mulino, ci aiuta a capire perché tutto ciò sia potuto succedere, come sia potuto sembrare normale agli altri circa 1.190 professori aderire al Regime, e per questo ci vien detto merita di essere letto anche da chi, come la sottoscritta, non fa lo storico di mestiere.
Tarquini non crede affatto che gli Italiani, tanto meno gli Italiani colti, abbiano aderito al Fascismo inconsapevolmente, o per inerzia, o per costrizione. Tutto il libro, anzi, cerca di spiegare le ragioni di una mobilitazione diffusa e convinta, ragioni identificabili nel fatto che il Fascismo ha dato agli italiani un mito di palingenesi, il senso di una grande impresa di rifondazione che ha motivato e stimolato le energie del Paese a partecipare attivamente.
Entro questo quadro, ciascuno ha risposto a proprio modo, e questa è anche la ragione di una certa eterogeneità interna al fascismo (tra statalismo e autoritarismo, tra tradizionalismo e realismo in letteratura, tra razionalismo e neoclassicismo in architettura, etc.) eterogeneità che però non ha intaccato la sostanziale identità e identificabilità della cultura fascista.
Se tale identità è riuscita a imporsi, nonostante le differenze, è stato grazie alla politica culturale del regime, che non ha lasciato nulla al caso. Mossa dal sogno antropologico di costruire un uomo nuovo, ha in modo tentacolare regolato ogni passo della formazione degli italiani: a scuola (con la riforma Gentile, per quanto rivista in seguito), nel tempo libero (non solo con la valorizzazione dello sport, ma perfino nella gestione dello svago e del turismo; basti pensare alle colonie estive), nel dopolavoro una volta diventati adulti, e attraverso una mirata gestione dei finanziamenti alle società e alle istituzioni dell’ambito dei media (la radio e il teatro anzitutto). Così facendo, il Fascismo ha promosso e controllato un numero sempre crescente di ambienti, fascistizzando nel momento stesso in cui alfabetizzava.
Anche per questo la politica fascista è stata una politica totalitaria, perché l’identificazione di fascismo e politica, e poi di fascismo e vita, era totale. Il fascismo costituiva una fede (e richiedeva rituali e liturgie) e come ogni fede prevede, o l’adesione è totale o la fede non è.
Questo progetto via via più pervasivo ha lasciato un’evidente traccia in alcune denominazioni e rinominazioni che il Regime ha imposto: da Ministero dell’Istruzione a Ministero dell’Educazione (dove il campo semantico dell’educazione come Tarquini rileva ha confini molto più ampi di quello dell’Istruzione), da ufficio stampa della Presidenza del Consiglio a Ministero della Cultura Popolare.
Così ha preso forma e si è istituzionalizzata un’ideologia che ha nutrito la popolazione italiana tutta, consentendole di riconoscersi in una serie di miti che la galvanizzavano e le attribuivano potenzialità di sorti magnifiche e progressive che solo certe rivoluzioni radicali (la Rivoluzione Francese, il Risorgimento) avevano saputo alimentare: miti di eternità, potenza, perfezionamento che guardavano a un uomo nuovo, non alla restaurazione delle tradizioni per gusto passatista. La fede fascista era una fede rivoluzionaria perché rifondativa, anche quando riorganizzava l’esercito secondo le vuote gerarchie delle antiche milizie romane.
In questo humus, si sono collocati gli intellettuali (da Sironi a Bontempelli, da Marcello Piacentini a Leo Longanesi e Curzio Malaparte), tutti impegnati, ciascuno a suo modo, a nutrire ed esprimere al meglio il nuovo mondo che il Duce aveva reso immaginabile. Nessuno degli intellettuali citati da Tarquini si salva; nessuno è esente dalla fede in quel sogno e tutti sono al contempo produttori e consumatori di quell’universo valoriale e mitologico che definisce il Fascismo.
E questa, forse, è la lezione migliore del libro: questa sintesi di rispetto e implacabilità che Tarquini usa verso la cultura fascista: una cultura di straordinaria complessità e rilevanza (anzitutto dal punto di vista estetico e pedagogico) dalle cui sirene, però, tutti sono rimasti non incantati ma entusiasti. Una lezione che induce a stare attenti noi, oggi a ogni facile, populistico, entusiasmo.

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