Gli animali parlanti, il loro dolore e l’efferetezza degli umani

«Ci trasmettono intimità  anche se noi li abbiamo trattati con efferatezza»

«Ci trasmettono intimità  anche se noi li abbiamo trattati con efferatezza»

La maggior parte delle estati della mia infanzia e della mia adolescenza l’ho passata in un piccolo paese del Carso, al confine con quella che, allora, si chiamava Jugoslavia. Ad ore ben precise la grande strada che tagliava in due il paese veniva attraversata da lunghe file di Tir provenienti dall’Ungheria, dalla Jugoslavia, e, in parte minore, dalla Romania e dalla Turchia.
La maggior parte di questi camion trasportava animali vivi — mucche, agnelli, maiali, a volte anche cavalli. Ricordo ancora il loro odore— odore di gasolio, di polvere, misto a quello acre di urina ed escrementi. Ricordo l’odore, come rammento quelle decine di occhi scuri, carichi di domande e devastati dall’ansia, che si affacciavano alle feritoie di acciaio, quelle morbide narici vellutate che si spingevano contro le sbarre, dilatandosi spasmodicamente nel tentativo di comprendere cosa mai stesse succedendo. Ero piccola e ancora non sapevo cosa fosse un macello, eppure, tornando a casa con mia nonna, provavo sempre un grande senso di tristezza e di oppressione. La scia che lasciava nell’aria il passaggio di quegli animali non era soltanto odorosa — assieme alle molecole olfattive, sospese nell’aria c’erano anche quelle, ben più misteriose e devastanti, della sofferenza.
Quel dolore muto e impotente entrava in me assieme all’ossigeno, raggiungeva i polmoni e mi perforava il cuore. Dietro l’apparenza serena delle giornate estive si celava qualcosa di tremendo e quel qualcosa era il mistero del dolore innocente. Sono stati quei camion che trasportavano creature vive verso la banalità di una morte seriale a condurmi a un precoce e profondo senso di rivolta e a influenzare in maniera indelebile le immagini della mia creatività. La sofferenza degli animali, infatti, le mute domande dei loro sguardi sono come un filo rosso che attraversa tutta la mia opera. Appena ne ho avuto la possibilità, mi sono trasferita in campagna e ho cominciato a vivere con un certo numero di animali, trasformando la mia casa in una piccola arca. Anche se si tratta di una goccia in un oceano, sono felice di sapere che almeno un asino, il mio, vive felice nella pienezza della sua asinità, e che quel coniglio, che ha ormai gli occhi velati dalla cataratta, ha trascorso tutta la sua esistenza da coniglio, scavando cunicoli, correndo libero nel frutteto, tempestando il terreno con una zampa per avvertire i suoi compagni di un pericolo imminente; come mi rallegra sapere che il vecchio trottatore— dopo aver trascinato per tutta la vita carrozzelle cariche di turisti in mezzo al traffico della città — invece di varcare la soglia del macello a cui era già destinato, ha scoperto d’un tratto la libertà e, per la prima volta nella sua vita, malgrado gli acciacchi dell’età, si è lanciato in un galoppo sfrenato nel mio pascolo. Il suo sorriso e il suo nitrito hanno accompagnato per diversi anni i miei risvegli e sono stati la conferma di un sentimento sconosciuto purtroppo a una gran parte di esseri umani — quello della riconoscenza. Riconosco che hai visto il mio dolore, riconosco che hai fatto il possibile per alleviarlo, la compassione che ti ha spinto ad assumerti la mia sofferenza è per me motivo di gioia. Quanta complessità e quanta umiltà c’è nella riconoscenza, e quanto poco sappiamo ancora dei sentimenti profondi degli animali!
Quelli della mia fattoria godono il privilegio di una condizione utopica — senza padelle né mannaie all’orizzonte, vivendo già nel mondo di Isaia dove è solo la gratuità dell’amore a legare tra loro i viventi e le cose. «Non mangio carne, perché è carne di martire» diceva mia nonna negli ultimi anni della sua vita. Non era un’animalista — erano gli anni 60, 70 — né aveva un grande trasporto per loro. Quando noi nipoti le abbiamo regalato un gatto — il primo animale a entrare in casa sua — l’ha guardato per mesi con lo stesso stupore esterrefatto con cui avrebbe fissato un abitante di Marte. Pur non essendo un’animalista, mia nonna aveva una profonda visione spirituale— percepiva cioè quello che la maggior parte delle persone non riescono a vedere. Le lunghe file di camion che attraversavano il paese avevano messo il sigillo di fuoco anche nel suo cuore. Quell’ininterrotto passaggio di camion di trenta, quaranta anni fa non era altro che una profezia di ciò che sarebbe accaduto negli anni a venire nel mondo degli uomini. Davanti all’altare dell’irragionevole consumismo tutti si sarebbero genuflessi. Che quei camion, quei vagoni e quei numeri ricordassero altri camion, altri vagoni e altri numeri è buona educazione ricordarlo il meno possibile. Eppure sono convinta che il nazismo abbia lasciato nel terreno dell’Europa dei semi a crescita lenta ma capaci di sviluppare radici profonde— radici terrene e radici aeree in grado di arrampicarsi fino al cielo. Da sempre gli uomini hanno compiuto le più atroci efferatezze nei confronti dei loro simili e degli animali, ma è stato solo il nazismo a teorizzare — e mettere efficacemente in pratica — il declassamento dell’essere umano a «cosa» , arrivando a sfruttare la materia di cui siamo fatti — ossa, pelle, capelli— per trasformarla in prodotti da vendere— saponi, tessuti, lampadari. Un tempo, la stanza in cui ora sto scrivendo era una stalla; ogni due anni le sue pareti vanno ridipinte per eliminare l’umidità e il salnitro che continuano a trasudare, grazie agli umori delle mucche e dei vitelli che, per un centinaio d’anni, hanno vissuto nel luogo dove adesso c’è la mia scrivania. Quando l’ho comprata, al piano terreno c’erano soltanto due stanze comunicanti: la cucina, con il focolare, e la stalla. Fino agli anni sessanta del secolo scorso, infatti, nelle campagne italiane, uomini e bovini vivevano in stretta intimità e tutte le mucche, allora, avevano un nome. Un nome, non un numero. Quel nome sanciva la loro definitiva appartenenza alla famiglia umana e il benessere dell’animale significava il benessere stesso della famiglia. Era ancora vivo il rapporto di reciprocità che sta alla base della domesticazione. Intorno a me, mentre scrivo, probabilmente aleggiano ancora le anime di Rosina e di Celeste, di Stella e di Regina, forse sono proprio loro, con i loro occhi luminosi, a ispirare le parole che sto scrivendo. Non si può pretendere di tornare indietro nel tempo, ma si può imparare dal passato la via per costruire un futuro diverso da quello che stiamo vivendo.
Nessuna delle mucche che ha abitato in questa stanza è di sicuro morta di vecchiaia, ma tutte, altrettanto sicuramente, hanno vissuto appieno la loro «mucchità» — d’inverno governate nel calore della stalla, d’estate a zonzo a ruminare le essenze più profumate dei pascoli. Se si vogliono cambiare le cose — e lo si deve fare, e anche con una certa urgenza — bisogna saper osservare la realtà nella sua concretezza. Immaginare che tutto il mondo possa diventare vegetariano è un bellissimo sogno, purtroppo impossibile da mettere in pratica, così com’è altrettanto impossibile immaginare di restituire un’ipotetica libertà a tutti quegli animali— galline, tacchini, maiali, mucche, pecore, capre — che, ormai da millenni, convivono con noi e fanno parte della nostra cultura. Nel mistero della domesticazione, queste creature si sono affidate a noi; siamo stati noi che, ad un certo punto, abbiamo tradito la loro fiducia. Come abbiamo fatto? Non osservando più i loro occhi, smettendo di interrogarci sulle domande celate dietro a quei loro sguardi luminosi e quieti.
Domande che non sono altro che un riverbero delle nostre: domande sulla fragilità, sulla temporaneità, sul mistero della morte che tutti ci ingoia o tutti ci accoglie. Meglio censurare l’idea di coscienza, meglio chiudere gli occhi, serrare il cuore, restare sordi e ciechi all’atroce grido di dolore che si leva da tutti gli allevamenti intensivi del mondo, meglio pensare che questi animali non sono altro che cinquecento chili di carne inerte che, se si pompano bene, possono diventare anche seicento— seicento chili di carne da vendere e non una creatura vivente il cui destino è indissolubilmente legato al nostro. Il profitto naturalmente, è una cosa giusta e necessaria — non c’è attività, non c’è società senza guadagno — ma quando diventa un idolo cieco, quando sull’altro piatto della bilancia non è posta l’etica, il profitto diventa uno scivolo che ci trascina tutti verso il baratro. Non permettere alle mucche di vivere secondo la loro mucchità, alle galline secondo la loro gallinità, ai maiali la loro maialità vuol dire non permettere agli uomini di vivere secondo la loro umanità. Con gli animali condividiamo la fragilità dei viventi. Sia noi che loro siamo sottoposti al grande mistero, allo scandalo della morte.
Davanti a questo mistero, a questo scandalo non c’è altro rimedio che cercare di capirne il senso, ma davanti allo scandalo di una creatura espropriata della verità della sua vita, a una mucca che è solo carne, a un pollo fatto nascere con quattro cosce per creare più profitto, a una gallina che non farà mai un passo e non vedrà mai il sole, l’unico rimedio è la forza della nostra consapevolezza che ci spinge ad agire per ridare dignità agli umili e silenziosi compagni delle nostre vite.

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