A Genova c’ero anch’io. E confusamente, sapevo di esserci forse soprattutto per questo: poter dire, a distanza di anni, che ero stata lì, che avevo visto, respirato, calpestato le strade di Genova, ed ero in grado di testimoniare direttamente cosa fosse accaduto, cosa avesse significato.
A Genova c’ero anch’io. E confusamente, sapevo di esserci forse soprattutto per questo: poter dire, a distanza di anni, che ero stata lì, che avevo visto, respirato, calpestato le strade di Genova, ed ero in grado di testimoniare direttamente cosa fosse accaduto, cosa avesse significato.
Genova per noi – intendendo con “noi” questa mia generazione mansueta, figlia del benessere e del disimpegno – è stata uno dei rari momenti collettivi di “ribellione” e rottura. Non sminuito nel suo valore, ma anzi reso più ricco e significativo dal fatto che in strada si fosse scesi con gente di tutte le età: i “nonni” più numerosi dei genitori, e qualche precoce fratello minore. Tutti quelli che l’hanno vissuto sentono il bisogno di raccontartelo, prima o poi. E se persino i cronisti di fama, nel rievocare quelle giornate, non esitano oggi a soffermarsi su ricordi e sensazioni squisitamente personali, è forse perché l’esserci di persona, quella volta, ha davvero fatto la differenza.
A vent’anni, non avevo una grande esperienza di manifestazioni. Nella mia città di provincia i cortei studenteschi coprivano a mala pena lo spazio di due isolati, e cominciavano a sfilacciarsi al primo bar decente. E all’università, iniziata da poco a Torino, non era periodo di mobilitazioni. Così, si può dire che Genova sia stato il mio “battesimo” delle dinamiche di piazza; che è un po’come iniziare a bere con la vodka… Per evitare di creare una finta suspense, voglio però dirlo fin da subito: non ho brutte avventure da raccontare per fortuna, niente botte, né inseguimenti, né cariche. Il mio pullman è stato credo fra gli ultimi a poter entrare in città, e insieme alle poche persone che conoscevo ho raggiunto il corteo nelle retrovie. I disordini e le violenze di quel giorno li ho solo sfiorati, annusati. Mi ricordo la tensione, questo sì, spessa spessa fin dai primi metri. Mi ricordo le mille mutande stese “a sfregio” dai genovesi, per indispettire Berlusconi, e le provvidenziali docce d’acqua gelida gettate dai balconi nelle ore più torride. Mi ricordo i trilli stentati del cellulare ogni volta che i miei riuscivano ad accaparrarsi un frammento di “campo” per accertarsi che fossi viva, e gli slogan sulle magliette, “tazebao” vivente della protesta (sulla mia, disegnata in fretta il giorno prima, c’era Mafalda che appendeva al mappamondo un avviso di “lavori in corso”…). Mi ricordo le notizie confuse, allarmate, che il passaparola ci portava dalla testa della manifestazione, e i volti scuri dei poliziotti schierati all’imbocco di ogni via, tesi e compatti, surreale fotografia degli opliti in assetto di battaglia come li avevo sempre immaginati (ma, a differenza dei mitici soldati greci, ahimè meno credibili in quei giorni come difensori della democrazia). Mi ricordo il sovrapporsi e rincorrersi di melodie, su tutte “bella ciao”, e la nota struggente che in qualche modo le legava. Perché, neppure per un minuto, si poteva scordare che lì il giorno prima era morto un ragazzo, nel peggiore dei modi, ucciso da un altro ragazzo come in una canzone di De Andrè. Mi ricordo la spavalda euforia degli universitari, il pacato compiacimento degli adulti che “noi ci crediamo ancora!”, i sorrisi fiduciosi degli scout, dei bambini e delle suore.
Mi ricordo, a un tratto, il fumo dei lacrimogeni in lontananza, l’arrivo dei primi feriti, la concitazione, l’ansia di smarrire i miei compagni di viaggio. E da qui le immagini reali si confondono con quanto poi visto e rivisto nei tg e negli “speciali” televisivi, o immaginato mentre, sulla via del ritorno, ascoltavamo alla radio il racconto di una brutale repressione. Perché l’informazione, in quelle giornate, stava facendo al meglio il suo dovere.
A lungo il senso di paura, indignazione, frustrazione e rabbia per come erano andate le cose ha zittito ogni altro sentimento e riflessione. Possibile che una protesta pacifica fosse stata così platealmente repressa nel sangue? E che, in uno stato di diritto, si profilasse un futuro di sicura impunità per i responsabili?
Oggi, a dieci anni di distanza, riaffiora anche tutto “il resto”. Mi accorgo, quasi con sorpresa, che so ancora elencare e spiegare i principali temi e proposte del movimento “no global”, e che, al di là di certe parole d’ordine ormai datate – come la stessa definizione “no global” – continuo in sostanza a riconoscermici. Certo, allora mi sembrava tutto più chiaro. Tremendamente chiaro: cosa era giusto e cosa sbagliato per il futuro dell’ambiente, della pace, della giustizia sociale. E soprattutto chi erano i buoni e chi i cattivi, i “nemici” del futuro che sognavamo. Certezze alimentate in molti dal bisogno di serrare le fila, di proteggere ad ogni costo quelle preziose comuni speranze, quel fragile e inatteso ritorno alla “partecipazione”. E nel mio caso, temo suffragate da innate tendenze manichee rafforzate a suon di film Disney… Con gli anni quelle certezze hanno imparato l’arte di scomporsi e ricomporsi, come dentro un caleidoscopio, per misurarsi con l’imprevedibilità della vita e della storia. Oggi so che il confine fra “buoni” e “cattivi” è assai mobile, come la linea che delimita i campi di “pallapugno”, e la fatica vera è trovarlo, volta per volta, prima di capire dove tirare, con quale angolatura e potenza. So che in entrambe le “squadre” c’è chi si impegna e chi vivacchia, chi ragiona e chi invece ha deposto qualsiasi ambizione di pensiero. E che, nelle scelte concrete, spesso la distinzione cruciale non è fra “giusto” e “sbagliato”, ma fra “sensato” e presuntuosamente “velleitario”.
250/300mila manifestanti, è stato detto allora: non pochi, ma neppure troppi se paragonati ai 3 milioni del circo Massimo a Roma, meno di un anno dopo (per una campagna rivelatasi ancora più effimera…). Eppure, solo nella ristretta cerchia dei miei amici, quanti ne conosco che erano lì! Segno che, se qualcosa dobbiamo rimproverarci, è forse proprio l’aver continuato a sentirci “quelli che sono andati a Genova”; l’essere rimasti fra noi, a proseguire idealmente quel meraviglioso corteo, anziché fermarci a scampanellare alle porte, come monelli, per costringere gli “altri” ad affacciarsi sul futuro che credevamo di scorgere tanto lucidamente. In realtà, nessuno era in grado di vederci chiaro, non solo a causa dei lacrimogeni. E, di lì a poco, a intorbidire ulteriormente lo scenario ci avrebbero pensato la polvere di “ground zero”, e le bugie dei “grandi” per giustificare nuove ingiustizie e violenze.
Per me, Genova resta comunque l’immagine dell’orgoglio delle persone quando decidono che devono prendere in mano il proprio destino, e insieme il destino collettivo. Resta la briciola gettata in un ingranaggio, senza speranza di poterlo inceppare, ma che magari alla lunga, giro dopo giro, riesce a riposizionarne di poco il movimento, come dicono facciano certi terremoti con l’asse di rotazione terrestre. Resta l’innesco più o meno consapevole di tutte le successive “battaglie” della mia vita, la partenza di tutti i miei cortei: dalla marcia per la pace a quelle del 21 marzo, dalle fiaccolate del 25 aprile al festoso serpentone del Gay-pride, che un paio d’anni fa ha regalato una prospettiva tutta diversa della città, seducendo Genova e i genovesi…
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