Fusaku che guidava l’Armata rossa

Al festival del documentario di Marsiglia, scorre la sconvolgente stagione di un Giappone settantottino nel progetto filmico «L’Anabase», girato fra Tokyo e Beirut

Eric Baudelaire presenta il film più forte del Fid che narra la storia della leader dei rivoluzionar.i È la figlia May a testimoniare quel passato di lotta, lo stesso vissuto dal regista Adachi

Al festival del documentario di Marsiglia, scorre la sconvolgente stagione di un Giappone settantottino nel progetto filmico «L’Anabase», girato fra Tokyo e Beirut

Eric Baudelaire presenta il film più forte del Fid che narra la storia della leader dei rivoluzionar.i È la figlia May a testimoniare quel passato di lotta, lo stesso vissuto dal regista Adachi

 MARSIGLIA.Le All Star verde acido scivolano leggere mentre lei digita veloce qualcosa sulla tastiera dell’I-phone. Il resto è una nuvola grigio metallo che avvolge capelli, corpo, gambe lasciando fuori un poco di viso e le mani sottili. Una ragazza giovane, appartenenza sociale dai dettagli qua e là non Hlm, le case popolari nelle periferie. A Marsiglia le donne velate sono ormai tantissime, molto di più rispetto a qualche anno fa: giovani, meno giovani, sposate insieme ai mariti (anche loro coi vestiti e le barbe religiosi) e i figli a passeggio, in giro allegre con le amiche, al mercato, nel centro commerciale della Borsa, benestanti e no, poco importa. Il segno che le unisce è questo velo, a volte solo un foulard vezzosamente colorato, a volte accompagnato all’abito tradizionale fino al nero totale che non lascia fuori nulla, anche le mani sono coperte coi guanti, e al burqa – mi chiedo di fronte a una donna alta, interamente invisibile, che intuisco giovane dal passo spedito, come si «senta» il mondo da là dietro.

In Francia non piace quando si parla di comunità, mi dice un ragazzo algerino al bar. E tutto questo, il velo e il resto, sembra invece dichiarare un senso comunitario netto, sottolineato con ostinazione, qualcosa che va al di là della religione, una compattezza trasversale in cui le differenze scompaiono all’interno di un sistema unitario. Sono tracce, segni di un contemporaneo che ci interroga continuamente, a cui le semplificazioni non bastano.
Il Fid, che si è chiuso ieri, si pone continuamente questo obiettivo: ricercare le trasformazioni nei nostri paesaggi, fisici e emozionali, attraverso immagini che ne sappiamo intuire – e rendere visibile – il senso meno evidente.
La «teoria del paesaggio» Masao Adachi l’aveva elaborata mentre lavorava col critico anarchico giapponese Masao Matsuda a A.K.A. Serial killer (’69). Si erano ispirati a un fatto di cronaca, un ragazzo che aveva ucciso diverse persone, senza motivo apparente. Facendo dei sopralluoghi – «è lo stesso al cinema e nella guerriglia, si studiano i luoghi dell’azione», dice Adachi – avevano scoperto che il ragazzo era molto povero, la famiglia pativa la fame e lui, dopo avere tentato vari mestieri, era esploso. L’idea era di cercare nel paesaggio giapponese le ragioni di quel gesto e le tracce dell’oppressione, le strutture del potere che schiavizzano gli uomini.
L’Anabase de May et Fusaku Shigenobu, Masao Asachi et 27 années sans images, nel concorso internazionale, di Eric Baudelaire è uno dei film più forti sia visivamente che nel progetto filmico visti al Fid. Il regista parte proprio dalla teoria del paesaggio di cui parla Adachi, costruendo il suo film quasi come una «improvvisazione musicale» visiva: parole, memoria, conflitti. La voce di donna, morbida, nel suo inglese con accento straniero, spiega che la madre l’ha chiamata May perché nel mese di maggio sono accadute delle cose per lei importanti, e ha perduto due suoi compagni a cui era molto legata. Ma May, in giapponese «Mei» significa anche «vita», e nell’ideogramma «kakumei» rivoluzione.
La May che parla, ripercorrendo un’infanzia dominata dal mistero, dai silenzi anche sui dettagli più «insignificanti» come confessa lei stessa, da spostamenti continui, mai il tempo necessario per abituarsi a luoghi e persone, è May Shigenobu, figlia di Fusako Shigenobu, leader dell’Armata Rossa giapponese, da lei fondata col nome di Fazione Armata Rossa nel ’69, divenuta l’Armata Rossa qualche anno più tardi, dopo la fusione con la Fazione Rivoluzionaria della Sinistra – quel mese di maggio al quale si riferisce May ci fu l’attentato all’aeroporto di Lod, a Tel Aviv, in cui vennero uccise ventisei persone. Baudelaire però parla di Fusaku Shigenobu, arrestata nel 2000 e attualmente in prigione in Giappone, dove sconta una condanna a vent’anni. Anche se presente, Fusaku rimane nel fuoricampo, a parte un fotogramma televisivo d’archivio al momento del suo arresto.
L’Anabase… incrocia invece l’esperienza della figlia di Fusaku, cresciuta in Libano, il cui padre era un militante palestinese rimasto sconosciuto, e appunto del regista e sceneggiatore giapponese Masao Adachi che, col suo cinema, ha iniettato la sovversione nel sistema delle immagini in modo assai più destabilizzante che le azioni dell’Armata Rossa. Alla cui lotta Adachi ha partecipato, ha vissuto a lungo in Libano e in Medioriente, sostenendo la causa palestinese. Fusaku Shigenobu e Masao Adachi si erano incontrati quando lui e Wakamatsu, di ritorno dal festival di Cannes dove avevano presentato alla Quinzaine il loro Sex Jack, erano arrivati a Beirut per girare un film sulla condizione dei palestinesi – The Red Army/PLFP Declaration of Word War, subito vietato.
May dopo l’arresto della madre è tornata in Giappone. Ricorda il senso di soffocamento provato da bambina, il peso di una clandestinità imposta. Il vissuto di Adachi, che l’ha conosciuta allora, rimanda invece sempre al suo cinema, per lui la dicotomia tra fare film e lotta armata, non esiste. Jean Marie Straub, parlando di Holger Meins, il militante della Raf ucciso dallo sciopero della fame mentre era in prigione, diceva che se non avesse fatto film sarebbe passato anche lui alla lotta armata. L’orizzonte di Adachi è diverso, si delinea in una sorta di continuità.
Queste voci, e il loro rapporto quasi all’opposto con la rappresentazione, sono il centro del film. Sullo schermo scorrono immagini magnificamente girate in super8, tra Beirut e Tokyo, non sappiamo se sono oggi o ieri, i due protagonisti li ripercorrono insieme a noi, Adachi non lo vediamo mai, May si scorge un secondo in un programma televisivo a Tokyo. Adachi ha chiesto a Baudelaire di girare per lui delle immagini in Libano che vuole mettere nel suo prossimo film. Gli dà indicazione di luoghi, strade, ma nel vederle dice che è tutto cambiato.
I racconti oscillano nel tempo, per la donna il paradosso è di essere venuta al mondo all’improvviso, ormai adulta, il giorno che la madre è stata catturata. Fino allora non era esistita, dopo sarà subito un personaggio pubblico. In qualche modo però si è sempre messa in scena, sin da piccolissima, per esistere. Adachi i personaggi li ha creati per i suoi film, ciò che dice di sé fa parte del suo universo poetico. Nessuna immagine di Baudelaire è illustrativa, non serve a decorare ciò che dicono i due protagonisti, piuttosto ne è parte, nei luoghi vivono i segmenti delle loro esistenze, memoria e presente, una Storia cancellata che assume, secondo il punto di vista (e la generazione), un approdo individuale e un «fare» collettivo.
Il paesaggio è anche la materia su cui lavora Bernard Salmann in Das Schlechte Feld. Un’autostrada che taglia la campagna, quasi innaturale, intorno Ansfelden, borgo vicino a Linz, in Austria. Da lì viene il regista, e in voce off sulle immagini delle automobili, ci dice che ha ripulito la cantina, conservando solo qualche quaderno di infanzia. In uno di essi ha scoperto con stupore, un suo tema bucolico di ricordi che probabilmente appartenevano a suo padre, figlio di fattori della zona. Comincia così una sorta di genealogia familiare, il nonno paterno, quello materno, mentre il paesaggio dall’autostrada si sposta nel borgo, tra i campi dei nonni ormai venduti. Questa apparente «madeleine» proustiana ci porta piano piano in una dimensione atroce. Come in un thriller il regista costruisce il suo tracciato. Prima i giochi da ragazzino, i turisti che cercavano Bruckner il compositore, divenuto il vanto locale che i nazisti trasformeranno in un mito. Il monastero dove si spingeva con gli altri ragazzini. Ogni cosa ne risveglia un’altra, il termine «nazismo» arriva per la prima volta parlando del sindaco del borgo che era stato nazista. E, infine, ecco che tra l’anonimato delle macchine in corsa e la tranquillità di quelle case, affiora la memoria dell’Olocausto, i prigionieri dei campi in marcia verso la morte lo avevano attraversato rivelando agli occhi dei suoi abitanto la mostruosità del nostro secolo.
Bambini, uomini, donne, giovani e anziani affamati, che quando cadevano in terra venivano uccisi. Agli abitanti era proibito dargli da mangiare, ma in molti si sono ribellati. Ci sono le testimonianze, una signora allora bimba ricorda una donna nel momento della sua morte, il soldato la getta nel fiume sotto agli occhi della piccola figlia.
Una ragazza polacca che era arrivata lì per lavorare ci è rimasta. All’epoca, era stata portata dai tedeschi, dopo i paesani la chiamavano «puttana». Il campo «cattivo» del titolo è quello del nonno del regista, dove avevano costretto i prigionieri a costruire l’autostrada, i lavori si erano però fermati perché i materiali servivano al fronte. La Storia e l’attualità di sospetti e razzismi si delineano nelle immagini di Salmann, raggelate e prive di concessioni.

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