Dalla Rete alle strade La protesta delle “svergognate” è globale

Slutwalk Letteralmente la «marcia delle puttane». In settanta città , dal Canada all’Asia, da internet alle piazze, è il movimento di donne che ripensa «il corpo è mio», versione 2.0

Boston, Seul, Rio, Sydney, Città  del Messico e oggi tocca a New Delhi. Ma affiorano dubbi su parole e modi A Londra l’appuntamento ha coinciso con l’inizio dell’affaire Strauss-Kahn. A Parigi il dibattito è vivo e acceso

Slutwalk Letteralmente la «marcia delle puttane». In settanta città , dal Canada all’Asia, da internet alle piazze, è il movimento di donne che ripensa «il corpo è mio», versione 2.0

Boston, Seul, Rio, Sydney, Città  del Messico e oggi tocca a New Delhi. Ma affiorano dubbi su parole e modi A Londra l’appuntamento ha coinciso con l’inizio dell’affaire Strauss-Kahn. A Parigi il dibattito è vivo e acceso

 PARIGI.Il prossimo appuntamento è oggi a New Delhi. Poi seguirà Johannesburg, il 20 agosto. Le slutwalks, le «marce delle puttane», in pochi mesi si sono trasformate, non senza polemiche, in un fenomeno mondiale, che già alcuni analizzano come l’avvio di una nuova rivoluzione femminista, un modo ludico per riattualizzare nel XXI secolo il vecchio slogan «il corpo è mio», diventato oggi lo slogan internazionale «Look, don’t touch! This is a dress not a yes». La prima slutwalk ha avuto luogo in Canada, a Toronto, il 3 aprile scorso, con una partecipazione di circa quattromila persone. L’intenzione era di rimettere in causa gli stereotipi che persistono attorno alle aggressioni sessuali, con le vittime sospettate di essere, almeno in parte, colpevoli. Dopo Toronto, analoghe «marce» hanno avuto luogo in pochi mesi in una settantina di città, tra cui Boston, Seul, Rio, Vancouver, Sydney. A Londra la marcia ha coinciso con l’inizio del caso Dominique Strauss-Kahn. A Città del Messico, la marcha de las putas è stata anche una protesta contro il «femminicidio» di Ciudad Juarez. A Reykjavik hanno partecipato duemila persone, un record per l’Islanda, un paese di soli 320mila abitanti. A New Delhi, la manifestazione, in un primo tempo prevista per il 25 luglio è stata rimandata a oggi, tra le polemiche, che hanno spinto le organizzatrici ad attenuare il nome: la slutwalk si chiamerà «marcia delle sfrontate». Con un atteggiamento ludico, le ragazze sfilano vestite in modo provocante, tacchi a spillo, minigonne, scollature, trucco. «L’obiettivo non è evidentemente dire che tutte le donne devono vestirsi in modo provocante, ma piuttosto che il modo di vestirsi, provocante o no, non è mai un invito all’aggressione sessuale», spiega un blog canadese.

A Parigi, il 25 maggio scorso, dei gruppi di salopes si sono uniti ai margini di una «marcia contro il sessismo». Organizzazioni femministe come Osezleféminisme o Parolesdefemmes hanno però espresso alcune perplessità sulla forma data a questa lotta. «Il termine salopes non mi piace molto» afferma Olivia Cattan, di Parolesdefemmes. Una decina di giorni fa, sul New York Times, Rebecca Traister ha espresso analoghe perplessità, con un articolo intitolato «Signore, abbiamo un problema», all’origine di molti commenti. «Mentre questioni di sesso e potere, colpevolezza e credibilità, genere e giustizia, sono così presenti e urgenti» ha scritto, «svestirsi mi rende furiosa». La volontà di choccare non piace a tutte. Tanto più che le slutwalks sono state organizzate, in genere, al di fuori dei tradizionali circuiti del femminismo più strutturato.
Ma al di là delle polemiche, queste marce, che si sono diffuse con straordinaria rapidità in tutte le parti del mondo, mettono in evidenza un problema comune, che persiste: il sospetto che le vittime di aggressioni in qualche modo «se lo siamo cercato».
In Francia, il dibattito sulla credibilità delle denunce di casi di stupro si è acceso in seguito all’affaire Strauss-Kahn. Osezleféminisme, LaBarbe e Parolesdefemmes hanno lanciato una petizione contro il florilegio delle affermazioni sessiste che hanno fatto seguito all’arresto del favorito alle presidenziali del 2012, il direttore del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn. Gli avvocati di Dsk hanno subito discreditato la cameriera che ha denunciato l’uomo potente, «poco attraente», «venale», sospettata di «prostituzione». Gli amici di Dsk hanno messo la mano sul fuoco e affermato di non poter credere ad accuse del genere, un gesto violento che «non gli assomiglia». La polemica, al di là del caso specifico della suite del Sofitel, si è poi estesa al sessismo dilagante nel mondo politico francese. Molte parlamentari e donne impegnate in politica hanno rivelato episodi delle loro carriere, umiliazioni subite, pressioni di vario genere, anche per quello che riguarda la apparentemente semplice questione della scelta del vestito da indossare. In molte hanno affermato che è difficile presentarsi all’Assemblea parlamentare vestite con la gonna, ricordando sarcasmi e ammiccamenti dei colleghi maschi, più attenti alle gambe che ai contenuti dell’intervento politico.
La questione della «gonna» è da anni al centro di dibattiti e iniziative. Dal 2006 esiste in varie città e cittadine di Francia la «giornata della gonna», che è diventato anche il titolo di un film di successo di Jean-Paul Lilienfeld, con Isabelle Adjani come protagonista. Il film si interrogava sulla violenza sessista nelle banlieues, partendo dalla constatazione che nelle rivolte del 2005 mancava la presenza femminile. Ma la «giornata della gonna» è nata in una zona rurale, in un liceo professionale di una cittadina della Bretagna, dove un gruppo di ragazze che seguiva un corso sulla salute ha avuto l’iniziativa di lanciare l’idea di una «Primavera della gonna e del rispetto», da celebrarsi ogni anno. L’idea era nata da una discussione sulla difficoltà che esiste oggi, e non solo nelle banlieues difficili, a portare una gonna, senza diventare oggetto di attenzioni non richieste.

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INDIA
Si chiama «marcia delle svergognate». Ma fatica a uscire dalla blogosfera

 L’ultimo terreno di battaglia è New Delhi, che oggi avrà il suo Slut Walk: qui si chiama Besharmi Morcha, ovvero «marcia delle svergognate». L’iniziativa è partita da un gruppo di studentesse e ha già avuto una prima tappa nella città di Bhopal: dove però alla marcia ha partecipato appena una 50ina di donne e uomini, nonostante le quasi 5.000 adesioni su Facebook (pare che molti genitori abbiano vietato alle figlie di partecipare). La campagna delle «svergognate» ha però una certa risonanza sulla stampa e ancora di più sul web. L’India ha una sua tradizione di battaglie femministe contro la violenza sulle donne, ma qui le opinioni sono contrastanti. «L’India ha bisogno una “marcia delle sgualdrine” in ogni città e villaggio», dice un messaggio sul blog Aam Janata, uno dei tanti che difendono l’iniziativa e anche l’uso provocatorio della parola «sgualdrina». Ma le stesse promotrici della marcia a Bhopal avevano suggerito alle partecipanti di «non vestirsi in modo provocatorio, perché non è nella nostra cultura». E sul quotidiano The Hindustan Times una nota commentatrice scrive: «Non sono “slut”, e che sia dannata se mi indicherò mai con questo termine». Alcune blogger ribattono: «E’ un certo tipo di comportamento che va “svergognato”, non le donne che lo subiscono». Ieri l’emittente Ndtv è andata a interrogare alcune sex worker di una nota via di bordelli di Delhi (in India esiste un agguerrito movimento di “lavoratrici del sesso”), che tagliano corto: «Voi “gente per bene” avete creato un grande scandalo su questa parola, slut, che noi abbiamo come stampata sulla fronte. Ci dobbiamo difendere dagli abusi degli uomini ogni giorno. Ma per noi ci sono questioni più urgenti di questa marcia».

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Daniela Sanzone
Canada / IL 3 APRILE SCORSO IL PRIMO CORTEO
Tutto è iniziato dal «consiglio» del poliziotto Michael Sanguinetti

 TORONTO

Slutwalk è cominciato in Canada. Il 24 gennaio di quest’anno, il poliziotto Michael Sanguinetti venne chiamato a tenere un discorso alla York University su sicurezza e prevenzione del crimine a sfondo sessuale. A un certo punto offrì il consiglio che ha scatenato un intero movimento: «Le donne non dovrebbero vestirsi come slut (prostitute, ndr) per non essere vittimizzate». La reazione non si fece attendere. Un gruppo di donne chiese le scuse del poliziotto, le ottenne qualche tempo dopo e decise di manifestare di fronte alla sede centrale della polizia di Toronto. Così, su iniziativa di Sonya Barnett e Heather Jarvis, riscattando la parola slut, nacque slutwalk, movimento partito con il sito internet www.slutwalktoronto.com e proseguito con la protesta di piazza del 3 aprile scorso a Toronto. Dalla Rete alla strada, la partecipazione è stata straordinaria per una città nordamericana: circa quattromila persone hanno risposto all’appello e riempito Queen’s Park, sede del parlamento provinciale dell’Ontario. Nella folla ragazze in topless e altre con magliette con su scritto «Sluts Unite» (prostitute unite), «This dress is not a yes» (questo vestito non vuol dire sì) e «Viva la rivoluzione slut». Una sferzata in una città viva ma che non sta certo attraversando il momento più avanzato e illuminato della sua storia. Il neo-sindaco Rob Ford, eletto lo scorso aprile e schierato da anni con i conservatori, non ha voluto partecipare al Gay Pride di giugno – la manifestazione sui diritti degli omosessuali più importante del Nordamerica insieme a San Francisco, che porta in città la rara e significativa cifra di ben due milioni di persone – adducendo come motivazione l’appuntamento inderogabile al cottage con la famiglia. Suo fratello Doug, assessore comunale, ha la mano pesante con i tagli alla cultura.
A Toronto comunque slutwalk è ancora più vivo che mai. Sono le idee di oppressione che, come citano le organizzatrici, «hanno bisogno di essere messe in discussione», riguardano tutti e giustificano il razzismo, discussioni omofobiche, lo status, la classe, la sessualità, i diritti degli indigeni. Per questo slutwalk Toronto verrà riproposto il prossimo aprile mentre l’onda sta attraversando tutte le principali città e cittadine canadesi.

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