Così le comunità  sul web sostituiscono le élite culturali

 Il panorama intellettuale è completamente cambiato. Un centro non esiste più. Se alcuni osservatori ritengono che la rete abbia un influsso negativo, altri credono che sia più democratica.  La produzione di parole scritte non è mai stata tanto abbondante. Ma le cose si trasmettono in modo diverso. Arte e letteratura hanno cessato di essere le forme privilegiate di espressione 

 Il panorama intellettuale è completamente cambiato. Un centro non esiste più. Se alcuni osservatori ritengono che la rete abbia un influsso negativo, altri credono che sia più democratica.  La produzione di parole scritte non è mai stata tanto abbondante. Ma le cose si trasmettono in modo diverso. Arte e letteratura hanno cessato di essere le forme privilegiate di espressione 

A partire del 1960 in Nord America e in Europa, o forse addirittura prima degli anni ´40, si è verificato un grande, seppur graduale, cambiamento nei valori culturali: la distinzione tra cultura elitaria e cultura popolare è andata in frantumi. Mi riferirò a questo crollo come alla fine dell´Arte. Sono consapevole che questa espressione è stata evocata più di una volta negli ultimi decenni senza che, ovviamente, le prassi artistiche siano davvero “finite”. Indiscutibilmente esistono centinaia di migliaia di artisti, ma ad essere finita è l´Arte (con la A maiuscola) – la convinzione comune della centralità dell´arte e della letteratura e del suo potere di redenzione culturale.
Credere nell´arte era caratteristica determinante del modernismo, quel complesso e variegato insieme di idee e di prassi che definì la nostra cultura nell´arco dell´intero ventesimo secolo e che ebbe come forma tardiva il postmodernismo. In molti nella comunità artistica ancora pensano che la loro attività culturale sia importante quanto quella dei loro predecessori. Ma nell´abbondanza digitale di oggi esiste un gruppo numericamente ben più consistente di comunità che sono fonte di prodotti e performance che non dipendono dalle tradizioni artistiche. Queste comunità più estese possono rivendicare implicitamente o esplicitamente la qualifica di arte, oppure possono non rivendicare nulla. Tuttavia sono esempio di un nuovo concetto di arte (o creatività), meno seria e addirittura svilita, o forse meno pretenziosa e più contemporanea, a seconda dei punti di vista.
Assieme all´arte stanno finendo altre forme omologate di comunicazione e di espressione: la lettura e la scrittura, il dibattito pubblico e la politica. Ovviamente la lettura, la scrittura e il dibattito politico non sono a rischio di sparizione in senso stretto. La produzione di parole scritte (per lo più digitate) non è mai stata così abbondante ma gli scritti estesi, seri, i saggi ad esempio, hanno perso lo status di mezzo privilegiato per cogliere e trasmettere il sapere durevole. I blog, i talk show radiotelevisivi sono popolarissimi, ma non è immaginabile (o quantomeno non è opportuno immaginare) che la convulsa retorica dei blog e delle trasmissioni politiche costituisca un dibattito politico serio nel senso tradizionale del termine.
Alla politica su base ideologica si aggiungono (senza sostituirla completamente) altri generi di prassi sociali piuttosto dissimili da essa, intesa in senso tradizionale. Sono tutti mutamenti annunciati più e più volte in molteplici contesti, a partire almeno dagli anni ´60, ma questo momento culturale è diverso. Benché i media digitali non siano causa della fine dell´arte e della rivalutazione della politica, l´abbondanza della nostra attuale cultura mediatica fornisce loro un nuovo contesto rendendoli con ogni probabilità irreversibili.
Molti autori (Andrew Keen, Mark Bauerlein, Jaron Lanier, e Nicolas Carr) hanno scritto recentemente che la tecnologia digitale esercita un influsso negativo sulla nostra cultura e su di noi come individui. Criticano gli effetti dei messaggi di posta elettronica e di Google sulla nostra attenzione e l´impatto del nuovo mondo dei social media, come Facebook, YouTube, Twitter, e Wikipedia, sulla nostra creatività. Altri (Henry Jenkins, Steven Johnson, e Clay Shirky) puntano a convincerci che questa nuova cultura partecipativa è più democratica e creativa rispetto al passato, quando esisteva un controllo più centralizzato.
Penso però che ciascuna di queste scuole di pensiero si concentra su aspetti diversi dell´eterogeneo paesaggio mediatico. Quando dico che la nostra cultura mediatica è esuberante, intendo che è un universo così vasto, così variegato, e così dinamico da essere inafferrabile come insieme. La maggior parte degli autori, inclusi tutti quelli citati in precedenza, ci offrono una descrizione più o meno totalizzante dello stato della nostra cultura. Ma le loro spiegazioni sono simili a raggi di luce proiettati nello spazio enorme del nostro universo fisico: riescono forse a illuminare gli oggetti vicini ma rapidamente si disperdono finché svanisce completamente il loro potere illuminante. Ciascuno di noi può presumere di godere di una visione privilegiata da una posizione centrale ma, per proseguire con la metafora astronomica, la nostra esuberanza mediatica equivale all´universo fisico che si espande in ogni direzione, per cui qualsiasi punto può essere considerato centrale.
Il mutamento culturale più importante nel passaggio dal ventesimo a ventunesimo secolo è la perdita di un centro culturale riconosciuto. La cultura elitaria (arte, letteratura, musica classica) non ha più un ruolo centrale ma non è stata sostituita, al centro, da forme di cultura popolare. Invece quasi tutte le forme o le prassi culturali possono fungere da centro per una comunità di clienti o utenti di dimensioni variabili. Alcune di queste comunità sono enormi. Il video di Baby, un brano di Justin Biber, ha totalizzato più di 500.000.000 visualizzazioni su YouTube, un numero di molto superiore agli abitanti degli Stati Uniti, e 500 volte maggiore del video di Leonard Bernstein che esegue estratti dall´Inno alla gioia di Beethoven. Le dimensioni della comunità contano, ovviamente, in termini di potere economico, ma non ai fini di una pretesa centralità culturale. La fine di un centro riconosciuto non implica la fine della cultura. Né la fine della cultura elitaria. Segna la fine di una definizione di cultura, quella dominante. I nuovi media non costituiscono un nuovo centro culturale, ma aggiungono nuovi spazi creativi alla cultura di oggi.

(traduzione di Emilia Benghi)

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