Conversazioni segrete tra leggenda e realtà 

CInema Il festival di Marsiglia ha rinnovato con l’edizione 2011 la sua scommessa di una ricerca negli immaginari «impura», che rompe l’etichetta del genere documentario

«Sip’ohi – El lugar del Manduré» di Sebastian Lingiardi vince il Fid L’Argentina degli indios Wichi, tra mitologia e massacri nascosti Animali inventati, paesaggi che narrano una Storia. I film del reale sfidano l’immagine del mondo L’Africa del Mokéle M’Bembé rifiuta l’esotismo. I sogni di un operaio raccontano l’oppressione in Iran

CInema Il festival di Marsiglia ha rinnovato con l’edizione 2011 la sua scommessa di una ricerca negli immaginari «impura», che rompe l’etichetta del genere documentario

«Sip’ohi – El lugar del Manduré» di Sebastian Lingiardi vince il Fid L’Argentina degli indios Wichi, tra mitologia e massacri nascosti Animali inventati, paesaggi che narrano una Storia. I film del reale sfidano l’immagine del mondo L’Africa del Mokéle M’Bembé rifiuta l’esotismo. I sogni di un operaio raccontano l’oppressione in Iran

 MARSIGLIA.Ha vinto Sip’ohi – El Lugar del Manduré, l’altra storia dell’Argentina – una delle molte possibili – che Sebastién Lingiardi ci racconta rintracciando la memoria degli Wichi, gli indios che vivono nella regione di Chaco, nel nord-est dell’Argentina. Un film «piccolo», indipendente, con momenti molto emozionanti e di grande potenza visiva, come la prima immagine delle mani che intrecciano fili mentre una voce invisibile narra una leggenda, in una lingua poco familiare, sulla divinità Wichi Takjuaj. «Sapevo sin dall’inizio che le storie legate alla dimensione orale erano le più importanti. Per questo dovevo trovare delle immagini adatte. Non volevo illustrarle in modo letterale, mi interessava cercare una corrispondenza alle parole nell’ambiente quotidiano della comunità». È quello di Lingiardi quasi un film in progress nella struttura che rivela il «fare» del cinema. C’è un personaggio principale, Gustavo, che insieme a un amico anche lui studioso della cultura Wichi, si interroga su come rendere visibile un popolo scomparso, che si autonasconde, e non vuole far sentire la sua voce. La strada migliore, si dicono i due, l’unica possibile per sconfiggere il silenzio è non aspettare di essere riconosciuti dall’esterno – i due protagonisti sono anche loro Wichi – ma scegliere un’ autorappresentazione che parla delle proprie leggende e riti quotidiani, e di un massacro tenuto nascosto dalla storia ufficiale – gli Wichi sono stati derubati delle loro terre e spinti sempre più verso zone deserte dove vivono in miseria.

Lingiardi costruisce le sue immagini tra realtà e e messinscena, tra i luoghi e il personaggio di Gustavo, ma è grazie a questo confronto che riesce a stabilire in esse una profonda verità.
L’idea di un’immagine mostrata «in divenire», e all’interno di una dimensione della realtà che si mescola al fantastico, ricorre in molti dei film visti quest’anno, che toccano la Storia, filmano il lavoro, cercano un confronto costante con il tempo presente provando a reinventarne le forme della rappresentazione. Ma la forza, e l’unicità di questo festival, è proprio nella scelta di porsi scommesse mai facili né banali. A cominciare da una dichiarazione teorica e poetica netta, che attraversa le sue selezioni anche al di là, a volte, dei singoli risultati.
Eccoci dunque nell’Africa di Marie Voignier, percorsa seguendo l’esploratore Michel Ballot che da molti anni ha intrapreso la ricerca di un mitologico animale, sconosciuto ai zoologi, strano intreccio tra un drago e un coccodrillo, che però molti degli abitanti locali – siamo nel sud-est del Camerun – assicurano di avere avvistato. L’Hypothèse du Mokéle M’Bembé, nella competizione francese, è un viaggio ostinato e appassionato di qualcuno che non si cura, come Bellot, di essere considerato un folle nel mondo scientifico per l’ostinazione con cui insegue questo sogno impossibile. Verso la fine, mentre sta per tornare indietro al termine di una ricerca che ancora una volta lascia il «suo» Mokele M’Bembé, così ha chiamato l’animale, nel territorio appunto delle ipotesi, Bellot si lascia andare a una serie di considerazioni. La «rigidità» scientifica gli appare un limite alla conoscenza profonda di un luogo come l’Africa dove tutti pensano di che sia normale vedere elefanti, mentre lui ci ha messo anni prima di vederne uno.
La cosa più sorprendente però è il rapproto tra l’uomo e gli abitanti dei diversi villaggi, ormai abituati alla sua presenza, alla tendina gonfiabile in cui dorme, a quelle che devono apparirgli come delle stravaganze. Ognuno alla sua domanda ha una diversa risposta, che è più un’interpretazione, e che disegna una trama di complicità e di partecipazione a ciò che appare impossibile. Questo scambio intorno a una fantasmagoria, permette di allargare la conversazione a molto altro, la dimensione spirituale, lo sguardo sulla vita, il sapere collettivo e l’esperienza individuale. Il «drago» diviene uno strumento di conoscenza, ci porta in una realtà sfaccettata che seguendo un filo immaginario la cineasta riesce a penetrare più profondamente. Ma soprattutto l’incontro tra l’ossessione dell’uomo e le diverse testimonianze dei Pigmei, se da una parte ci mostra la trama di un esotismo coloniale persistente, dall’altra libera l’Africa dai più comuni stereotipi della rappresentazione etnica, per esempio le immagini di miseria o di degradazione che abitualmente la racchiudono.
«Gheddafi via!». Il cartello all’entrata del piccolo caffè non lascia dubbi. I ragazzi tunisini che lo gestiscono amano la loro rivoluzione e sperano che travolga gli altri regimi. Stanno cambiando molte cose ci dice il cineasta tunisino Mourad Ben Cheikh, il suo Plus jamais peur che segue i giorni della rivoluzione è stato proiettato nella sezione «En chantier», In cantiere. Nel corso della tavola rotonda sulle rivoluzione lo stesso Mourad e Hichem Ben Ammar, cineasta tunisino nella giuria francese, dicono che stanno lavorando a un progetto di legge sul cinema che permetta alla produzione del loro paese autonomia e sviluppo. Il cinema in questa fase è fondamentale.
Di fronte al cartello mi torna in mente la «teoria del paesaggio» di cui parla Masao Adachi nel film di Eric Baudelaire L’Anabase de May et Fusaku Shigenobu, Masao Adachi et 27 ans sans images. Segni paradosali e contraddittori, la realtà non è un orizzonte lineare, e lo sguardo che vuole misurarsi con essa non può seguire una traiettoria unica.
Masao Adachi è stato tra l’altro un protagonista di questa edizione, a lui è dedicato anche il ritratto di Philippe Grandieux, Il se peut que la beauté ait renforcé notre résolution – Masao Adachi, primo episodio di una serie televisiva curata da Nicole Brenez e dallo stesso Grandieux, che raccoglie diversi registi del nostro tempo. Il riferimento, spiega Grandieux, regista molto «tendenzioso» nel senso assai sostenuto da una critica di tendenza in Francia (suoi Sombre, Un lac) è la serie Cinéastes des notres temps che curarono André S. Labarthe e Janine Bazin. Perciò non un’intervista corredata da spezzoni di film ma una sorta di divagazione fuori e dentro al cinema del regista che si racconta, quasi un sorta di incontro a più voci.
La prima immagine del film di Grandieux ci fa vedere un signore coi capelli bianchi che spinge sull’altalena una bimbetta. Masao Adachi ha una voce profonda, parla di vita, rivoluzione, film, per lui non c’è una frattura, non ci sono distinzioni. E poi Godard, Genet, la Palestina, e prima ancora i surrealisti e Breton. «Sono più surrealista che trotzskista» dice. Ogni scoperta permette un gioco di corrispondenze, la sfida è mettere in atto nel presente quelle lezioni di radicaltà poetica e politica. Nel film di Grandieux non ci sono immagini dei film di Adachi. C’è solo la sua voce, ci sono momenti al ristorante, conversazioni, scambi. «Mi piace girare al buio come a te, Philippe» dice Adachi. Grandieux cerca a sua volta Tokyo, inserisce il suo cinema negli spazi dell’incontro. E questo diviene anche il limite del film in cui il sorprendente estremismo dell’immaginario di Adachi si stempera nella presenza di Grandieux. Ma è il rischio di ogni «conversazione», quello cioè di perdere un po’ dell’uno nell’altro, e «Conversations secrètes», Conversazioni segrete, di chiamava una delle sezioni parallele, nel gioco di rispecchiamenti che appartiene al festival. Un piacere speciale di disseminare tracce e suggestioni nel suo programma che ritornano in altre forme.
I diari biografici e di un’epoca, sempre commuoventi e pieni di dolcezza, che realizza Jonas Mekas (Sleepless Nights Stories) e la sua «corrispondenza» visiva con José Luis Guerin, intensa e piena di cinema (Correspondance Jonas Mekas – J.L. Guerin) o il radicalissimo – e godardiano – David Holszman’s Diary di Jim Mc Bride (1967), quasi un manifesto teorico per il festival nel suo provocatorio ribaltamento di finzione e realtà, ci fanno capire perché in concorso troviamo Sibérie di Joana Preiss, un viaggio sulla transiberiana che la regista fa insieme a Bruno Dumont, insopportabile nella sua arroganza davanti e dietro alla macchina da presa. Solo che l’intimità teorica, e espressione del tempo di Mekas e di Mc Bride, non si rintraccia in ciò che è solo narcisismo senza piacere.
Lo spostamento, e la ricerca della realtà, in una dimensione intima, se non di impotenza di fronte a essa, e nei paesaggi che la racchiudono è un altro tema ricorrente, come in La Montagne di Ghassam Salhab, una specie di attraversamento del Libano, ieri e oggi, in assenza. Così Pierre Creton in La grand cortége ritorna dove ha girato il suo precedente Maniquerville, nella clinica per anziani, e ne segue la chiusura e il trasferimento dei pazienti in un altro centro poco lontano. Il senso di spaesamento dei malati, e la loro paura, ma anche ironia, il vuoto delle vecchie stanze, dove si entra solo alla fine, per il resto tutto è filmato nella ripetizione del transito in ambulanza, ci dice di un’infinita malinconia, di un tempo che passa e di ricordi perduti che forse potrebbero essere curati con maggiore amore.
L’Iran di una violenza sociale che prende a pretesto la religione affiora in Moving up di Loghman Khaledi. Anche qui, in fondo, siamo in una fantasmagoria, l’assoluta volontà di un uomo povero di essere scrittore. Il protagonista Shahriyar è manovale in Kurdistan, parla di Tennesse Williams, di Leonardo da Vinci, di Dostokevsky, le sue storie sono piene di dolore e di dramma, ai suoi personaggi infligge prove durissime forse perché, dice, anche la sua vita è così. La moglie alza gli occhi al cielo, i due piccoli figli piangono spesso, l’uomo scrive, scrive ma nessuno lo pubblica e nemmeno lo prende in considerazione. I vicini lo denunciano perché alleva piccioni sul terrazzo, a lui piacerebbe che la moglie si vestisse di rosa, lei invece sceglie il nero perché altrimenti il vicinato la giudicherebbe male. L’Iran dell’oppressione e della censura delle libertà individuali non ha bisogno di veli per essere raccontato.

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FIDLAB, I PROGETTI VINCITORI
Il sottomarino sul Paranà e il Laos di fantasmi e eroina

 

I premi del Fidlab, lo spazio di corpoduzione per progetti ancora da terminare, 2011 sono andati a «La Guerra Submarina» (Prix Panavision/AirFrance), progetto di Alejo Moguillansky, prodotto dalla società El Pampero Cine di Ivan Granovsky. «Guerra, Storia, presente: dove sta la finzione?», così il regista riassume il suo film in cui utilizza materiali d’archivio e una finzione su una guerra civile oggi. Il sottomarino che ispira il titolo si trova nel fiume Paraná, che è stato il principale scenario della guerra di Secessione argentina nel 19 secolo.
Il premio La Planète Rouge, società di postproduzione d’oltralpe, è andato a Phuong Thao Tran et Swann Dubus per il progetto «Trong Hay Ngoai Tay Em» (Con o senza di me). Sulla frontiera del Laos il ritratto di due uomini eroinomani e sieropositivi: uno si attacca alla vita e alla sua compagna, l’altro si immerge nella droga.
Il premio Sublimage, nuovo partner del FidLab, è stato dato a Jeanne Balibar per «Electre», prodotto da Pierre Grise Productions (Martine Martignac).

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