Carceri addio, il delitto punito con l’abolizionismo

VINCENZO RUGGIERO «L’amnistia? È lo Stato che nega se stesso. Meglio trattare il crimine e la pena con sedute di risoluzione dei conflitti. Oppure, come in Danimarca, con le prigioni a numero chiuso»
Il punto di vista del sociologo, docente italo-londinese, autore di un saggio sulla «contro-idea abolizionista» per le edizioni del Gruppo Abele

VINCENZO RUGGIERO «L’amnistia? È lo Stato che nega se stesso. Meglio trattare il crimine e la pena con sedute di risoluzione dei conflitti. Oppure, come in Danimarca, con le prigioni a numero chiuso»
Il punto di vista del sociologo, docente italo-londinese, autore di un saggio sulla «contro-idea abolizionista» per le edizioni del Gruppo Abele

 L’amnistia per svuotare le carceri e far tornare il sistema penale italiano alla legalità, come chiedono i Radicali italiani? Se la domanda la poniamo a un sociologo del calibro di Vincenzo Ruggiero, docente presso la Middlesex University di Londra che ha appena pubblicato per le edizioni del GruppoAbele un saggio sulla «contro-idea abolizionista» («Il delitto, la legge, la pena», pp. 271, euro 16), lui risponde con un’altra proposta: «L’amnistia è lo Stato che nega se stesso: dopo aver negato la sua possibilità di riabilitare e i principi per i quali detiene le persone, abdica a governare il carcere e quindi lo svuota. Allora tanto vale essere onesti e fare come in Olanda, Svezia o Norvegia, dove fino a qualche anno fa c’era il numero chiuso per il carcere, in modo da assicurare la legalità della detenzione, nel rispetto degli standard minimi stabiliti dall’Onu. E i detenuti in eccedenza si iscrivevano a una lista d’attesa. Se poi, nel frattempo, cambiavano vita, il carcere diventava inutile».

Ecco, fa questo esempio e capiamo subito meglio cosa si intende per «abolizionismo». Ma poi, quasi con humor inglese, fa notare che in Italia potrebbe ritrovarsi degli «alleati piuttosto imbarazzanti», visto che siamo il Paese dall’«élite più abolizionista del mondo»: «Quella che ha abolito il carcere ma solo per se stessa, che vuole abolire la Costituzione e la magistratura a proprio vantaggio, che vuole eliminare la prostituzione ma solo per gli altri, che è contro l’intervento assistenziale dello Stato ma solo per i più svantaggiati mentre si prende tutti i vantaggi che può dallo Stato».
Perché ha sentito la necessità di tornare proprio adesso sulla tesi abolizionista?
Perché gli indici di carcerazione salgono in tutto il mondo, nonostante il numero dei reati sia stabile o in diminuzione. Vuol dire allora che la società è diventata più intollerante oppure che i problemi sociali si affrontano oggi solo col carcere. Addirittura direi che viene punita la povertà. Dunque, mi sono convinto a dimostrare che nonostante l’abolizionismo suoni come un’idea provocatoria, utopistica, estrema, in realtà è radicata nella tradizione filosofica, religiosa e sociologica occidentale. Un pioniere dell’abolizionismo, come Louk Hulsman, si ispira alle sacre scritture cristiane, mentre un altro come Thomas Mathiesen si ispirerà pure al marxismo, corrente di pensiero egemone nell’800 e anche dopo, ma con forme critiche e libertarie. Infine Nils Christie, l’altro grande autore dall’approccio abolizionista, si ispira a idee anarchiche libertarie dell’800 completamente compatibili col pensiero critico contemporaneo.
In poche parole, cos’è l’abolizionismo?
Non è un programma immediato di abolizione del carcere. È un modo di vedere, una prospettiva con cui affrontare il crimine, le leggi e la pena, tentando di trovare, ove possibile, forme indipendenti di risoluzione dei conflitti. Non è una follia, si tratta di misure molto usate in Australia, in Francia, in Germania e anche a Milano, nel tribunale per minori. E perfino in Inghilterra, dove c’è un tasso di carcerazione maggiore che in Italia ma c’è anche una grande varietà di forme restrittive, diventate necessarie perché il sistema giudiziario ha allargato il raggio di comportamenti ritenuti sanzionabili.
In sostanza, se si guarda al crimine in un’altra ottica si trovano forme di trattamento alternative al carcere, è così?
Sì. Come avviene nelle sedute di arbitrato o riconciliazione. Occorre però che ci sia la disponibilità da parte del reo e delle vittime a cercare di capire cosa è successo nell’incidente che chiamiamo crimine. E ci vogliono persone ben formate che sappiano far interagire le due parti. Può succedere a volte che i due disputanti si rendano conto di avere problemi simili, stesso retroterra sociale, addirittura interessi comuni. In altri casi ciò non avviene e il conflitto tornerà nel contesto sociale da dove è emerso.
In quale direzione va invece il nostro sistema di giustizia?
Siamo alla negazione dell’idea illuminista della risocializzazione. Stiamo tornando alla deterrenza pura. O alla vendetta. Non c’è più l’idea di riabilitazione di Cesare Beccaria che Kant ridicolizzava sostenendo che lo Stato ha il diritto di punire. Hegel addirittura, radicalizzando questo discorso, sosteneva che è lo stesso reo ad avere diritto di essere punito, di essere riconosciuto nella sua individualità e non come mezzo sociale. Stiamo tornando a questa idea di pena come retribuzione. Durkeim dice che nella punizione c’è sempre un elemento di vendetta, e la pena non serve al detenuto ma a noi perché attraverso la punizione rafforziamo la nostra idea di legalità e di comunità coesa.
Lei parla di deterrenza, ma l’attuale governo italiano rivendica esattamente questa funzione del carcere, come ha spiegato solo qualche giorno fa il sottosegretario Giovanardi riguardo alla legge sulle droghe.
Non c’è alcuna prova che l’effetto deterrente funzioni. Nei paesi dove è applicata la pena di morte, per esempio, non diminuisce il numero dei reati. Il carcere invece mantiene una funzione educativa come durante la rivoluzione industriale, quando educava alla disciplina industriale. Oggi serve piuttosto ad abbassare le aspettative di chi vi è rinchiuso. Il messaggio è: «Non ti illudere, la ricchezza è lì, disponibile, ma non per te». Così il detenuto entra in quella che viene chiamata la “porta girevole”. In questo senso è rieducativo, perché ti abitua ad accontentarti di poco e a sopravvivere nei ghetti e nelle periferie. Nel caso dei migranti, invece, è davvero è uno strumento di deterrenza. E di ricatto: «Se provi a venire qui, ecco cosa ti accade».
Nel nostro sistema giudiziario quanto conta quella che lei definisce «la tirannia dell’opinione pubblica»?
Quella che noi chiamiamo opinione pubblica è in realtà una sommatoria di opinioni private che fanno la maggioranza. Ne parlava Tocqueville quando descrivendo il nostro modello di democrazia si preoccupava del conformismo, dell’adesione quasi totale a un pacchetto di valori e di stili di vita. Allora, a forgiare la supposta “opinione pubblica” è piuttosto una informazione deviata, una sommatoria di inganni, una congiura dell’ignoranza: c’è chi ignora la natura del crimine, chi l’effetto del carcere e chi la sofferenza della vittima.
Non ha contribuito anche, a questa congiura dell’ignoranza, quella che lei chiama la criminologia pubblica”?
Certamente. La criminologia pubblica è una nuova tendenza che fa la parte di chi si rivolge all’autorità chiedendole di essere benevolente verso i poveri disgraziati. È una criminologia dall’approccio paternalistico, da esercito della salvezza. Perché ha rinunciato a capire i mutamenti sociali e invece di interloquire con gli attori sociali coinvolti si rivolge élitariamente agli esperti e ai rappresentanti politici e istituzionali.
Quali sono secondo lei le scelte legislative che hanno contribuito alla costruzione di quella che lei chiama «zona sociale carceraria», cioè quella zona sociale soggetta alla “porta girevole”?
È una questione di scelte legislative ma anche di sottrazione di risorse. Con le norme che aumentano la flessibilità e il precariato si è allargata l’area di economia irregolare, la quale a sua volta è adiacente all’area dell’economia totalmente illecita. Ecco allora il formarsi di una sorta di pendolarismo degli esclusi tra comportamenti leciti, semi leciti e totalmente criminali. Quanto alla sottrazione di risorse, la filosofia che viene espressa è che se sei escluso è colpa tua, perché sei uno sconfitto. Certe leggi, poi, hanno fatto del carcere l’unica risposta ai problemi sociali, una sorta di deposito umano, come è successo con i consumatori di droghe per i quali si è scelto un atteggiamento poco tollerante e contemporaneamente si sono tagliati i servizi. Paradossalmente si può anche dire che chi va in carcere oggi può accedere a servizi che gli sono preclusi fuori.
E allora quale logica sottende – se non, certo, quella economica – a questo trasferimento di fondi dai servizi pubblici al carcere?
Un giudice britannico qualche tempo fa ha detto che il carcere è il modo più costoso di rendere le persone peggiori di quello che sono. Credo però che parlare dei costi della carcerazione non sia un’arma vincente, in un sistema economico e sociale come il nostro basato sul consumismo, sugli investimenti alla cieca, su incredibili sprechi. Io credo invece che il carcere sia usato come strumento educativo, nel senso che ho detto prima, che educa le persone cioè ad accontentarsi di nulla. Perché nulla è riservato loro.

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L’AUTORE
Sociologia in cella, lo studio dell’alternativa

 

Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. È fondatore e condirettore della rivista Forum on Crime and Society pubblicata dalle Nazioni unite. Autore di numerosi volumi e articoli, ha pubblicato in Italia, tra gli altri, «Il carcere immateriale» (con Ermanno Gallo, Torino, 1989), «La roba» (Parma, 1992), «Economie sporche» (Torino, 1996), «Delitti dei deboli e dei potenti» (Torino, 1999), «Movimenti nella città» (Torino, 2000), «Crimini dell’immaginazione» (Milano, 2005), «La violenza politica (Roma-Bari, 2006) e «Potere e violenza» (con Fedele Ruggeri, Milano 2010)

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